IL DOVERE DI FEDELTÀ VERSO IL CLIENTE NON GIUSTIFICA COMPORTAMENTI SCORRETTI DELL’AVVOCATO NEI CONFRONTI DELLA CONTROPARTE
Il professionista ne risponde sul piano disciplinare (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 222 del 25 maggio 2001, Pres. Grossi, Rel. Paolini).
L’avvocato Fabio D. ha promosso, per conto di un suo cliente, una causa civile di risarcimento danni contro una compagnia di assicurazioni. La convenuta è rimasta contumace, ma, in corso di causa, ha eseguito un pagamento di dieci milioni di lire. L’avvocato non ha dato atto, nel giudizio, dell’acconto ricevuto ed ha ottenuto la condanna per l’intero importo richiesto. Successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, egli ha agito esecutivamente per ottenere il pagamento dell’intero importo della condanna, omettendo, anche nella fase esecutiva, di dare atto della somma ricevuta. Egli è stato sottoposto a procedimento disciplinare dal Consiglio dell’Ordine Territoriale, con l’addebito di aver tenuto un comportamento contrario alla correttezza, alla dignità e al decoro professionali. Egli si è difeso sostenendo di avere agito nell’interesse del suo cliente e di non essere tenuto a rendere dichiarazioni favorevoli alla controparte contumace. Il Consiglio gli ha applicato la sanzione della sospensione dell’attività professionale per tre mesi. Il ricorso proposto dall’avvocato avverso questa decisione è stato rigettato dal Consiglio Nazionale Forense che ha ritenuto censurabile non solo il comportamento addebitato al professionista, ma anche la condotta da lui tenuta nel procedimento disciplinare.
L’avvocato ha proposto ricorso per cassazione. La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 222 del 25 maggio 2001, Pres. Grossi, Rel. Paolini) ha rigettato il ricorso, affermando che il Consiglio Nazionale Forense ha correttamente motivato la sua decisione, rilevando che il professionista aveva dato prova di ignorare i doveri di lealtà, probità e correttezza cui deve essere costantemente improntata la condotta dell’avvocato. La condotta tenuta in questo caso dal professionista – ha osservato la Corte – è manifestamente contraria non solo alla dignità e al decoro professionale, ma anche alla “regola dell’honeste vivere, che costituisce il substrato di ogni ordinamento giuridico”; tale comportamento costituisce un uso distorto di strumenti apprestati dal diritto in funzione della tutela di posizioni soggettive legittime, per procurare a sé, o ad altri, vantaggi indebiti ed attribuzioni patrimoniali sostanzialmente non spettanti e prive di giustificazioni. L’adempimento di assistere fedelmente i clienti, imposto agli avvocati dalla deontologia professionale – ha concluso la Corte – non può essere utilmente invocato dal professionista a giustificazione di comportamenti oggettivamente scorretti ed eticamente riprovevoli.
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