LA LENTEZZA DELLA GIUSTIZIA NON COSTITUISCE UN DANNO IN SE’, DA RISARCIRE CON DETERMINAZIONE EQUITATIVA
Per ottenere il risarcimento previsto dalla legge n. 89 del 2001 il cittadino deve dare la prova del pregiudizio subito (Cassazione Sezione Prima Civile n. 13422 del 13 settembre 2002, Pres. Delli Priscoli, Rel. Morelli).
Ugo M. ha ottenuto, nel dicembre del 2001, dalla Corte d’Appello di Perugia la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento della somma di lire otto milioni a titolo di equa riparazione del danno conseguito alla durata non ragionevole di un processo civile da lui promosso. La condanna è stata ottenuta in base all’art. 2 della legge 24 marzo 2001 n. 89 (cosiddetta legge Pinto) che riconosce il diritto a un’equa riparazione a chi abbia subito “un danno patrimoniale o non patrimoniale” per effetto del protrarsi di un processo oltre il “termine ragionevole” previsto dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
La Corte d’Appello ha ritenuto che il ritardo ingiustificato nell’amministrazione della giustizia produca al cittadino un “danno in sé” la cui esistenza non deve essere specificamente provata. Il Ministero della Giustizia ha proposto ricorso per cassazione sostenendo, tra l’altro, che in mancanza di prova del danno, la Corte avrebbe dovuto negare il risarcimento. La Suprema Corte (Sezione Prima Civile n. 13422 del 13 settembre 2002, Pres. Delli Priscoli, Rel. Morelli) ha accolto, sul punto, il ricorso del Ministero affermando che la lesione del diritto alla ragionevole durata del processo non costituisce un “danno in sé”, tale da non dovere essere provato. La Corte ha ricordato la sua giurisprudenza (sentenza n. 7713 del 2000 e 6507 del 2001) secondo cui il danno in sé è ravvisabile nella lesione di “diritti fondamentali della persona” la cui inviolabilità sia garantita da norme costituzionali immediatamente precettive e la cui violazione “non può rimanere senza la sanzione minima risarcitoria”.
La Corte ha però escluso che fra i diritti fondamentali della persona rientri quello alla ragionevole durata del processo, in quanto riconosciuto da una legge ordinaria (ovvero la legge Pinto) e a suo avviso “non direttamente riconducibile alla previsione dell’art. 111 della Costituzione” (ove si afferma che la legge deve assicurare la ragionevole durata del processo). Secondo la Corte, l’art. 111 Cost., nel nuovo testo, contiene in materia una norma meramente programmatica, non utilizzabile come strumento di controllo della durata del singolo processo e pertanto non ha introdotto “una garanzia al singolo, strutturata in termini di diritto soggettivo”; conseguentemente, per ottenere il risarcimento previsto dalla legge Pinto, il cittadino dovrà dare la prova dei danni derivatigli dalla lunghezza del processo.
Questa sconcertante decisione è commentata nella sezione “Il contesto“.
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