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Assegno divorzile: sì anche in caso di nuova convivenza dell’ex coniuge

L’ex coniuge che beneficia dell’assegno che ha una nuova convivenza, stabile e continua, può mantenere la titolarità del mantenimento: lo hanno detto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ribaltando un orientamento che ormai da anni era diventato granitico in materia.

Sebbene non ci sia una disposizione di legge che regolamenta questa situazione, si era soliti considerare l’inizio di una nuova convivenza dell’ex coniuge beneficiario come motivo per interrompere il pagamento dell’assegno divorzile.

La legge n.898/1970, infatti, prevede la celebrazione delle nuove nozze del beneficiario come unica causa espressa di cessazione del diritto a percepire l’assegno divorzile. Partendo da questo dato normativo giudici e avvocati, concordi con l’interpretazione maggioritaria della Corte di Cassazione, hanno ritenuto di poter estendere analogicamente questa prassi anche in caso di nuova convivenza.

Cambio di rotta delle Sezioni Unite in tema di assegno divorzile e nuova convivenza

Con una sentenza innovativa le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno, per certi versi, ribaltato l’impostazione seguita fino a questo punto dagli addetti ai lavori partendo dalla concezione retributivo-compensativa dell’assegno divorzile che è stata introdotta da un’altra celebre sentenza delle Sezioni Unite del 2018 incentrata sulla natura del contributo economico per l’ex coniuge.

Secondo la Cassazione del 2018, la funzione dell’assegno divorzile è anche quella di ristorare l’ex coniuge per il contributo e i sacrifici fatti nell’interesse della famiglia e dell’altro coniuge. Partendo da tale presupposto il diritto a questa “compensazione” non può escludersi per intero e in automatico qualora il beneficiario inizi una stabile convivenza, nonostante si riconosca al diudice la possibilità di una modulare l’importo mensile.

Iniziare un nuovo percorso di vita con un altro compagno, quindi, potrebbe provocare la perdita della parte assistenziale dell’assegno divorzile ma non della componente compensativa che verrà riparametrata dal giudice tenendo conto di vari criteri, tra cui:

  • la durata del matrimonio;

  • la prova dell’apporto del beneficiario al patrimonio familiare;

  • le eventuali vicende economiche che hanno contraddistinto la vita familiare e del beneficiario (ad esempio rinunce lavorative o di crescita professionale);

  • l’assenza attuale di adeguati mezzi di mantenimento autonomo e l’impossibilità oggettiva di procurarseli.

Spiccata differenza tra convivenza e matrimonio sulle sorti dell’assegno divorzile

La circostanza che balza agli occhi con estrema evidenza, dopo la lettura della sentenza delle Sezioni Unite, è la decisione di escludere in maniera inequivocabile le convivenze more uxorio dall’applicazione dell’art. 5, comma 10 della legge sul divorzio, ossia la disposizione che fa cessare il diritto a percepire l’assegno mensile in caso di nuove nozze.

La differenza tra matrimonio e convivenza viene, quindi, ancora una volta enfatizzata dalla Corte di Cassazione non senza un certo disagio e incertezza per gli operatori professionali e per le parti che si trovano a gestire una crisi familiare. Il diverso trattamento che viene riservato a convivenza e matrimonio, infatti, sembra apparire un po’ anacronistico rispetto alla situazione sociale degli ultimi anni dove stiamo vedendo una proliferazione delle convivenze a discapito della celebrazione di unioni matrimoniali.

Se, infatti, sotto molteplici aspetti è giuridicamente corretto lasciare una differenziazione netta tra l’istituzione del matrimonio e la convivenza more uxorio, per quanto riguarda il concetto che sostiene la ratio dell’assegno divorzile la convivenza e matrimonio sono modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale che giustificherebbero l’estinzione dell’assegno divorzile, tanto nel caso di nuove nozze che nel caso di convivenza more uxorio.

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Divorzio e criteri per calcolare l’assegno di mantenimento per il coniuge: caso della moglie senza reddito

La Cassazione ha parzialmente modificato i criteri per determinare l’assegno mantenimento in caso di divorzio nei confronti della moglie che non ha reddito ampliando la valutazione rispetto al semplice tenore di vita avuto dal coniuge durante il matrimonio e precisando che debba essere considerato anche il contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento per la determinazione del quale deve essere fatta una valutazione più armonica e comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali di moglie e marito.

Questa novità, in pratica, apre la strada ad una differente valutazione delle situazioni patrimoniali e lavorative dei coniugi che potrebbe portare anche alla revisione di molte pronunce di divorzio – consensuali o giudiziali – già emesse sulla base del criterio del tenore di vita.

Cosa cambia per il coniuge che chiede l’assegno di divorzio?

Andiamo ad esaminare una situazione concreta per capire cosa cambia per chi chiede l’assegno di divorzio.

Immaginiamo una moglie separata, di mezza età, laureata ma casalinga – dato che, durante il matrimonio, i coniugi avevano concordemente deciso che lei si sarebbe occupata dei figli. Attualmente in fase di separazione ha ottenuto un assegno di mantenimento versato dal marito, dirigente d’azienda. Durante l’unione la coppia, anche se non si è mai lasciata andare a lussi sfrenati, ha goduto di un buon tenore di vita: è riuscita anche ad investire i risparmi accantonati, acquistando alcune case poi divise al 50% in fase di separazione.

In sede di divorzio si dovrà valutare se il coniuge richiedente sia economicamente autosufficiente o abbia le capacità effettive per esserlo grazie, per esempio, a proprietà immobiliari, ad un patrimonio personale e la parte richiedente dovrà inoltre dimostrare di essersi resa parte attiva per ottenere i mezzi necessari per vivere ma il tenore di vita goduto con il marito, la contribuzione alla vita familiare e le possibilità economiche dell’epoca matrimoniale saranno considerate rilevanti per determinare la conferma o meno dell’assegno.

Come agire per dimostrare in ogni caso l’impossibilità di avere reddito

Potrà essere utile, ad esempio, iscriversi a corsi di formazione che possano riqualificare il curriculum vitae di una persona fuori dal mercato del lavoro, oppure inserire il proprio profilo nelle banche dati online che svolgono selezione del personale per conto di aziende terze, così come ricorrere al “collocamento” ordinario e parimenti potrà essere utile inviare vari curricula alle diverse aziende in cerca di personale. Un atteggiamento passivo e di “attesa” da parte della richiedente potrebbe essere visto negativamente dai Giudici e portare ad un rigetto della domanda. Nel caso che abbiamo tratteggiato per esempio, l’ex moglie potrebbe essere considerata in grado di mantenersi grazie ai risparmi accantonati durante il matrimonio o magari grazie alla proprietà degli immobili da far affittare e, quindi, potrebbe vedersi negare l’assegno.

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Il TFR alla morte del lavoratore. La concorrenza tra l’ex ed il nuovo coniuge

Un divorzio, l’incontro con un nuovo amore  un nuovo matrimonio. La creazione di una nuova famiglia è un desiderio naturale che nasce in moltissimi divorziati, ma può creare scompiglio negli equilibri raggiunti con l’ex coniuge. All’impatto emotivo spesso possono aggiungersi problemi patrimoniali.

Se il coniuge che si è risposato viene a mancare, poi, potrebbe di fatto innescarsi una contesa a distanza tra le due famiglie della persona defunta per la divisione dell’eredità.

Chiariamo subito che l’ex coniuge, fin da dopo il divorzio, non potrà essere ricompreso tra gli eredi legittimi di chi è scomparso. Questo non significa, però, che perda ogni tipo di diritto economico.

Così come avviene quando il lavoratore è ancora in vita, l’Ordinamento prevede che il coniuge divorziato riceva una quota del Trattamento di fine rapporto liquidato dopo la morte dell’ex.

La distribuzione del TFR tra i soggetti aventi diritto

Per ottenere questo beneficio il coniuge divorziato deve essere titolare di un assegno di mantenimento periodico.

La quota viene stabilita tenendo in considerazione tutte le persone che ne hanno diritto: il coniuge superstite, il coniuge divorziato, gli eventuali figli del lavoratore defunto o altri parenti a suo carico. Di fatto, il coniuge superstite dovrà dividere la sua quota di TFR con il coniuge divorziato.

Nel caso in cui l’ex coniuge si vedesse negare questo diritto da parte della nuova famiglia dell’ex questi ben potrà citare in giudizio tutti gli eredi. A quel punto, sarà il giudice a provvedere alla giusta suddivisione.

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Per il coniuge divorziato non vale il detto “finché morte non ci separi”

Spesso si evita di parlarne perché in fondo son pensieri che è meglio allontanare. Ma alcune volte dopo la fine di un matrimonio, dopo aver regolato tutti i rapporti, ci si trova a pensare a cosa succede se l’ex coniuge muore, o ancora a quali sono possano essere i diritti del coniuge divorziato rimasto in vita oppure cosa succede se nel frattempo l’ex coniuge si è risposato.

Con il divorzio, ex marito ed ex moglie sono a tutti gli effetti liberi di ricostruirsi una nuova vita. Ecco quindi che si materializza l’ipotesi che ciascuno dei due decida di rifarsi una famiglia. In questa eventualità subentrano quindi, all’interno delle dinamiche tra i due ex, nuove figure, con relativi diritti e doveri. Ma anche in presenza di eventuali nuovi compagni o figli nati in seconde nozze, è bene sottolineare che non vengono meno i diritti economici dell’ex coniuge.

Ad esempio, in questi casi l’ex coniuge mantiene il diritto all’assegno di mantenimento che potrebbe però essere revisionato. Alcuni diritti della prima moglie valgono sia finché l’ex marito è in vita, sia dopo la sua morte. Nel caso in cui l’ex venisse a mancare, per esempio, ha il diritto di chiedere una quota della pensione di reversibilità.

Pensione di reversibilità, presupposti

Il nostro ordinamento stabilisce che la pensione di reversibilità spetta, alla morte del lavoratore pensionato, ai suoi familiari tra i quali vengono ricomprese sia l’eventuale coniuge superstite sia l’ex.

Ci sono però due condizioni che l’ex coniuge deve rispettare per poter ottenere la pensione di reversibilità: non deve essersi risposato e deve essere titolare di un assegno di divorzio periodico.

Per quanto ostile o ingombrante possa sembrare, il coniuge divorziato continua ad avere un peso nella vita del proprio ex e della nuova eventuale famiglia. Il nuovo marito o la nuova moglie dell’ex non possono opporsi a che il coniuge divorziato percepisca la sua quota di pensione di reversibilità, qualora l’ex dovesse venire a mancare in quanto si tratta di un diritto riconosciuto a chi ha condiviso una parte di vita, più o meno duratura, con il defunto. Non si pensi ad una facile estromissione del coniuge divorziato, perché nel caso in cui venisse estromesso potrà citare in giudizio il nuovo coniuge al fine di vedersi riconosciuto il diritto a ricevere la propria quota.

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