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Come applicare la legge straniera alla separazione ed al divorzio in Italia anche se marito e moglie non sono d’accordo

Per marito e moglie che affrontano una separazione o un divorzio è possibile applicare la legge straniera anche se non sono d’accordo su quale normativa nazionale scegliere.

Prendiamo il caso di due coniugi, lui originario della Svizzera, lei italiana. Questi decidono, dopo il matrimonio, di trasferirsi nel paese di lui: migliori opportunità lavorative, salari più elevati, avvicinarsi alla famiglia del coniuge… sono solo alcuni motivi che li spingono a lasciare l’Italia.

Il legame, però, non si rivela duraturo e la moglie decide di lasciare il marito per tornare in Italia, vicino ad amici ed affetti.

In una simile situazione, e senza l’accordo con il marito, potrebbe essere molto complesso per la moglie avviare un processo di divorzio in Svizzera. I costi alti e le difficoltà linguistiche renderebbero difficile la gestione del procedimento, senza contare che l’avvio delle procedure sul territorio estero le richiederebbero inevitabilmente spostamenti periodici.

La moglie, quindi, perderebbe la possibilità di ottenere il divorzio senza dover prima passare dalla separazione, come ammesso dalla legge elvetica.

Il regolamento 1256/10, entrato in vigore da qualche anno in Unione Europea, però, permette di ottenere una via d’uscita facilitata in questi casi.

L’applicazione del regolamento 1259/2010 in caso di mancata scelta

In mancanza di un accordo tra i coniugi sulla separazione o sul divorzio, chi agisce per primo può scegliere sia dove iniziare la causa sia la legge applicabile.

Il regolamento prevede la possibilità di applicare la legge dello Stato in cui i due moglie e marito risiedono abitualmente o quella del Paese che è stato la loro ultima residenza comune, purché uno dei due vi risieda ancora.

Vi è anche una terza opzione che concede la possibilità di applicare la legge dello Stato di cittadinanza di marito e moglie. Se nessuna di queste tre opzioni può essere adottata, dovrà essere applicata la legge dello Stato dove si svolge il giudizio.

La moglie, quindi, potrà iniziare una causa in Italia applicando la legge Svizzera ottenendo subito il divorzio come previsto il quello Stato, che è quello dell’ultima residenza comune dei coniugi dato che il marito vi risiede ancora.

Attenzione però perché per poter scegliere la legge del Paese dell’ultima residenza abituale, non deve essere trascorso più di un anno da quando i due coniugi vi risiedevano insieme e l’inizio della causa.

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Limitazioni all’applicazione della legge straniera in Italia | Separazione e divorzio internazionale

In caso di separazione internazionale (o divorzio) esistono delle limitazioni all’applicazione della legge straniera in Italia.

La conoscenza di questa regola è essenziale, in modo particolare, da quando il Regolamento 1259/2010 consente alle coppie che vivono in un Paese diverso da quello di provenienza di poter scegliere quale legge applicare in caso di separazione o divorzio. Ciò, infatti, non risulta sempre possibile.

Limitazioni al Regolamento n. 1259/2010

Ipotizziamo che due coniugi siano originari di un paese in cui è concessa la poligamia e lì si sono sposati, con il marito giunto al terzo matrimonio.

Per varie ragioni la coppia si trasferisce in Italia, lasciando le altre mogli nel paese d’origine. Dopo qualche tempo la moglie inizia a frequentare un altro uomo, e dopo diversi mesi decide di rivelare al coniuge il suo tradimento e l’intenzione di chiedere il divorzio.

Per ragioni economiche e di tempo la moglie vorrebbe divorziare in Italia, senza tornare nel paese d’origine, ma la cosa potrebbe risultare più complessa del previsto.

Le norme di ordine pubblico sono prevalenti rispetto alla volontà delle parti

Per una forma di tutela dei principi e delle regole vigenti nei vari Stati dell’Unione Europea e per impedire che siano obbligati ad applicare norme straniere ritenute illegittime ed incompatibili con il diritto interno, il regolamento 1259/2010 prevede tre limiti che impediscono di usare la legge straniera.

Non si può applicare una legge straniera che non prevede il divorzio o lo prevede solo a condizioni discriminatorie per uno dei due coniugi. Si tratta di un limite che intende salvaguardare la parità di diritti tra uomo e donna, impedendo, ad esempio, che possa essere ammessa una legge che lasci al solo marito la possibilità di divorziare.

Il secondo limite prevede che la legge straniera non possa essere adottata se uno dei due Stati non riconosce il divorzio o se il matrimonio non è considerato valido. Pensiamo, ad esempio, al matrimonio omosessuale che non è ammesso in Italia: la richiesta di divorzio presentata da coniugi omosessuali, sposati all’estero, verrebbe rifiutata.

Il terzo limite del regolamento 1259/2010 è previsto nel caso in cui la legge straniera risulti in contrasto con le norme di ordine pubblico cioè con i principi fondamentali tipici di ciascuno stato.

Il matrimonio della coppia presa ad esempio non potrebbe avere validità nel nostro paese, perché non è ammessa la poligamia. Di conseguenza la domanda di divorzio verrebbe rigettata dal Tribunale perché riferita ad un matrimonio privo di effetti per la nostra legge. La coppia, quindi, sarebbe costretta a divorziare nel suo paese in origine.

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Separazione e divorzio di coniugi stranieri: il processo si può fare in Italia con legge estera

La separazione o il divorzio di moglie e marito stranieri che vivono in Italia può essere pronunciata a seguito di un processo svolto dinanzi al Tribunale italiano, con l’applicazione della legge estera dei coniugi.

Immaginiamo due coppie in piena crisi coniugale. La prima vive in Italia ma è composta da due cittadini stranieri; nella seconda i coniugi sono italiani ma risiedono da diversi anni all’estero. In entrambi i casi per capire dove dovrebbero svolgersi le cause di separazione o divorzio delle due coppie esistono delle regole.

Giurisdizione e legge applicabile: due concetti differenti

Prima di tutto dobbiamo chiarire che la giurisdizione individua lo Stato ed il Giudice dinanzi ai quali deve svolgersi la causa e non la legge che si dovrà applicare durante il processo.

Una causa che si svolge in Italia non vede necessariamente l’applicazione della legge italiana perché per individuarla esistono diversi criteri, anche la possibilità che i coniugi la scelgano da sé.

Per capire dove le due coppie potranno iniziare la loro causa, il primo criterio è quello della residenza abituale della coppia, intesa come il luogo dove si svolgono principalmente gli interessi e la vita dei coniugi.

L’altro criterio, cui è possibile ricorrere solo in seconda battuta, è quello della cittadinanza comune dei coniugi. In sostanza viene considerato prioritario il legame che i due coniugi instaurano con il Paese in cui abitano rispetto a quello con il Paese di cui sono cittadini.

Per comprendere il meccanismo sarebbe utile che facessimo qualche esempio. Un marito straniero, residente da almeno un anno in Italia, che deve separarsi della moglie, anch’essa straniera e residente in Italia, potrà fare la causa nel nostro paese avendo priorità la residenza abituale della coppia.

Ma anche la separazione di due coniugi cittadini italiani, residenti all’estero, in due Stati diversi, potrebbe svolgersi in Italia in funzione della loro comune cittadinanza, dato che la residenza abituale dei due non è la stessa.

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Divorzio senza ottenere la separazione: possibile in Svizzera

La Svizzera è uno dei tanti Stati in cui è consentito chiedere il divorzio senza obbligatoriamente passare per la separazione, contrariamente a quanto avviene in Italia, ed anche il procedimento è un po’ diverso dal nostro.

I tipi di divorzio in Svizzera

L’attuale diritto svizzero riconosce vari procedimenti di divorzio. Il primo è quello su richiesta comune. Riguarda ad esempio quelle coppie che concordemente decidono di porre fine al loro matrimonio. Marito e moglie presentano al Giudice un “contratto” completo che mira a regolare ogni rapporto tra i due, dall’aspetto patrimoniale agli eventuali accordi sull’affidamento dei figli. Tale convenzione dovrà essere esaminata dal Giudice, il quale potrà convocare i coniugi insieme, o separatamente, per assicurarsi la bontà dell’accordo così da ottenere l’omologazione e la pronuncia di divorzio.

Il secondo è quello su domanda unilaterale dopo due anni di vita separata. Ipotizziamo ad esempio che marito e moglie si trovino a dover affrontare una grave crisi coniugale. Litigi frequenti, scatenati dalle più futili motivazioni, inducono i due a prendersi una pausa di riflessione. Marito e moglie quindi interrompono la convivenza. Dopo due anni di distanza, la moglie, che nel frattempo ha conosciuto un altro uomo, si convince che la relazione è ormai giunta al capolinea e decide di chiedere il divorzio.

Se il marito rifiuta l’idea del divorzio la moglie può avanzare una richiesta unilaterale che darà inizio a un procedimento contenzioso, nel quale sarà il Giudice a stabilire tutte le condizioni.

La terza via è “ibrida”. Se i coniugi concordano sul voler divorziare ma sono in contrasto su alcuni punti (ad esempio, sull’assegnazione della casa coniugale) si è in presenza di un divorzio su richiesta comune con accordo parziale. In questo caso, a differenza del procedimento italiano, il Giudice analizzerà l’accordo, anche se circoscritto solo ad alcuni punti e, se ritenuto idoneo, lo omologherà, mentre continuerà la causa per gli aspetti ancora controversi.

La legge svizzera riconosce anche la possibilità di divorziare per rottura del vincolo coniugale quando, per motivi gravi vengono a mancare i presupposti per continuare il matrimonio. In questi casi è possibile ottenere il divorzio anche se non sono trascorsi due anni dalla fine della convivenza. Ciò vale ad esempio nei casi di molestie o di tradimento.

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Ri…sedotto e abbandonato

Dopo la separazione, può accadere che i due coniugi siano travolti dalla passione che li legava un tempo e ricostruiscano un legame sentimentale: tornare a dormire moglie insieme, avere rapporti intimi, può creare aspettative e far pensare che i rapporti ricuciti possano andare nella direzione di una riconciliazione. Pensiamo alla doccia fredda che può avere un marito se dopo tutto questo la moglie decide di chiedere il divorzio.

Presupposti della riconciliazione 

Affinché la riconciliazione possa rendere nulli gli effetti della separazione è indispensabile che vi sia la concreta ricostituzione dell’unione. Marito e moglie devono cioè ritrovare quella comunione materiale e spirituale che contraddistingue il matrimonio e che viene meno in caso di separazione. In questo senso la semplice convivenza non è sufficiente, né lo è l’eventuale ripresa di rapporti sessuali: è necessario che i due coniugi ritrovino la comune volontà di rimettere insieme le forze per continuare un percorso di vita comune. Se ad esempio la conflittualità continua, nonostante il rinnovato tentativo di convivenza, è altamente improbabile riconoscere una riconciliazione. Diversamente, può essere confermata la riconciliazione nel momento in cui tra marito e moglie sia verificabile il fermo desiderio di entrambi di ricostruire un rapporto a due duraturo.

La riconciliazione come strumento per opporsi al divorzio

Perché si possa parlare di riconciliazione, quindi, è essenziale che la famiglia torni a essere unita e venga ripristinata la comunione alla base della vita di coppia. In tal caso il Giudice potrebbe ritenere interrotta la separazione, purché vi siano atti, comportamenti, gesti concreti, dimostrabili e oggettivi, che accertino l’effettiva ricostituzione del legame matrimoniale. Qualora quindi la riconciliazione fosse oggettiva e verificabile, il marito potrebbe opporsi all’eventuale richiesta di divorzio formulata dalla moglie. Se accertata, la riconciliazione cancellerebbe lo status di separati costringendo il coniuge che ha richiesto il divorzio a ricominciare l’iter dalla separazione.

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Suocere invadenti e abbandono del tetto coniugale

Italiani popolo di mammoni…eterno luogo comune che però ha un fondo di verità. Con i giovani sempre più in difficoltà nell’emanciparsi dalla famiglia di origine a causa dell’emergenze occupazionali e immobiliari, per citare quelle più macroscopiche, tra genitori e figli il cordone ombelicale è duro da spezzare. Chiamate in causa più di tutte sono le mamme che nel dare amore, spesso faticano a lasciare ai figli la dovuta indipendenza. Quando i figli volano via dal nido e, magari, si sposano, queste mamme diventano suocere ed il pizzico di invadenza e indiscrezione fino a ieri tollerato, se coinvolge la nuova coppia, può diventare un problema.

Statisticamente è il rapporto tra la moglie e la madre del marito a essere maggiormente a rischio di tensioni e conflitti. La prima perché teme il confronto con la figura materna e finisce per sentirsi sotto esame; la seconda perché, timorosa di perdere l’affetto del figlio, non muta il modo di comportarsi dopo le nozze, con la conseguenza di compromettere la privacy della nuora e della coppia in generale.

E’ per tutti facile da immaginare che, a causa di una simile intromissione, l’equilibrio tra i coniugi possa risentirne. La presenza costante della suocera dà vita a nervosismi e attriti aggravati dal comportamento del marito che si schiera in difesa della madre o ne accetta passivamente le intromissioni senza dire nulla. La suocera non rispetta la privacy degli sposi, arrivando persino a presentarsi nella loro casa senza preavviso ed accedervi anche quando nessuno è presente.

Dopo anni di tolleranza, la moglie potrebbe arrivare alla fine della sopportazione e decidere di andarsene definitivamente, abbandonando il tetto coniugale. Il marito, deluso e arrabbiato per una simile scelta, potrebbe decidere di chiedere la separazione, convinto che il comportamento della donna possa giocare in suo favore.

Abbandono della casa familiare e addebito della separazione

L’abbandono volontario e unilaterale della casa coniugale, seguito dal rifiuto di farvi ritorno, può rappresentare motivo per ottenere la separazione con addebito. L’abbandono, infatti, costituisce violazione dell’obbligo di coabitazione, obbligo che nasce dal vincolo matrimoniale e che i coniugi sono tenuti a rispettare..

Però bisogna considerare il fatto all’interno del suo contesto. Se infatti l’allontanamento dalla casa familiare non è la causa che determina la crisi tra marito e moglie ma è la conseguenza di problemi irrisolvibili già in atto oppure è l’effetto della condotta intollerabile dell’altro coniuge, non potrà esserci addebito.

L’abbandono dell’abitazione coniugale da parte della moglie sarebbe solo la conseguenza di una crisi che dura da anni e che deriva dall’intromissione continua della suocera nella vita della coppia, quindi è davvero improbabile che venga pronunciato l’addebito a suo carico. Stessa cosa potremmo dire se l’abbandono fosse causato da gravi motivi, come la violenza del coniuge, o da una crisi che dura da mesi o anni che rende insopportabile l’idea di continuare  a vivere sotto lo stesso tetto.

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L’assegno di mantenimento tra separazione e divorzio

Capita spesso di vedere coppie in cui marito e moglie sono entrambi professionisti affermati. Ciascuno dispone di un patrimonio e di un reddito consistente che li rende autosufficienti ed economicamente indipendenti l’uno dall’altro. Durante la separazione, la loro posizione non subisce alcun contraccolpo, tant’è che nessuno dei due chiede un assegno di mantenimento. Tuttavia, nel corso dei mesi successivi alla sentenza di separazione, la condizione economica del marito precipita improvvisamente. Investimenti sbagliati e la perdita di qualche cliente importante lo hanno portato quasi sul lastrico.

Che cosa potrebbe accadere in sede di divorzio?

A causa dell’evidente peggioramento della sua condizione economica, il marito potrebbe avanzare la richiesta di un assegno divorzile, trovandosi in una posizione più debole rispetto alla moglie. Non esiste alcun legame di causa-effetto tra l’assegno di mantenimento riconosciuto dopo la separazione e quello eventualmente stabilito in sede di divorzio. Questo significa che, se durante la separazione nessuno dei coniugi ha chiesto un assegno di mantenimento, nulla vieterebbe che uno dei due ne faccia domanda durante la fase di divorzio, vedendosene riconosciuto il diritto. In altri termini, le decisioni assunte in sede di separazione non sono vincolanti per il Giudice del divorzio. Possono sì costituire un “punto di partenza” per la nuova valutazione, ma non necessariamente influenzano la sentenza divorzile.

La moglie, quindi, potrebbe vedersi costretta a versare al marito un assegno di mantenimento poiché, all’atto del divorzio, vanta una posizione economica più forte e stabile rispetto al marito.

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Se cambiare lavoro diventa un problema di coppia

Dopo anni di lavoro subordinato, un marito decide di avviare un’attività in proprio per seguire la sua più grande passione. Vuole aprire una libreria indipendente, per cui ha già iniziato a prendere i primi accordi per l’affitto dei locali.

La moglie, pur essendo a conoscenza di questa iniziativa da tempo, non la condivide. Anzi, l’ha sempre osteggiata, preoccupata delle possibili conseguenze economiche. Teme la perdita del reddito fisso che serve alla famiglia e, in linea generale, è preoccupata che la nuova attività possa gravare sui risparmi accumulati da entrambi.

Le discussioni in merito, inizialmente moderate, si accendono sempre di più man mano che il progetto assume una forma più concreta, per aggravarsi definitivamente quando il marito informa la compagna di aver presentato la lettera di dimissioni.

Il clima di conflittualità è esasperato al punto che la moglie medita di chiedere la separazione, ipotizzando che questa possa essere addebitata al marito dato che la crisi coniugale ha una specifica motivazione: la volontà di lui di cambiare lavoro, cimentandosi con un’attività imprenditoriale.

Il diritto a seguire le proprie aspirazioni

Dare libero sfogo alle proprie passioni attraverso un nuovo impiego, più in linea con le nostre inclinazioni non costituisce di per sé motivo di addebito della separazione perché risponde al diritto di ciascun individuo di esprimere liberamente la propria personalità anche sul piano economico-sociale. Esiste un limite, però, rispettare e assolvere i doveri di cura e assistenza alla famiglia.

Ciò significa che, se la decisione di cambiare lavoro, o avviare un’attività in proprio, non va a violare gli obblighi di collaborazione familiare e non è incompatibile con i doveri fondamentali che derivano dal matrimonio, con ogni probabilità l’eventuale separazione sarebbe pronunciata senza addebito.

Abbandonare il posto di lavoro ma avere prospettive professionali

Il marito assai difficilmente vedrà addebitarsi la separazione perché, sebbene abbia lasciato il lavoro “fisso”, ha iniziato una nuova attività con la quale progetta di poter far fronte al mantenimento della famiglia senza violare i suoi doveri di solidarietà familiare.

Possiamo dire, quindi, che non è la scelta di cambiare lavoro ad essere sindacabile, ma l’impegno e la dedizione verso la famiglia che devono rimanere il più possibile immutati.

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Non ti sopporto più! Quando la convivenza coniugale diventa intollerabile

Durante la convivenza coniugale, periodi felici si alternano più o meno fisiologicamente a fasi più critiche, in cui i due coniugi si allontanano e i loro rapporti si raffreddano. Si tratta di cicli inevitabili, che tutte le coppie, prima o poi, sono destinate ad affrontare. Ma quando il periodo di crisi sembra non giungere a una fine, è probabile che le cause siano da individuarsi altrove, in elementi ben più profondi e radicati.

L’intollerabilità della convivenza

Può accadere che per motivi di lavoro la moglie sia obbligata a trascorrere lunghi e frequenti periodi fuori casa. Il marito, dopo anni trascorsi in questa condizione, stanco di aver perso la dimensione più quotidiana del rapporto, potrebbe decidere di mettere fine all’unione. Benché sentimentalmente difficile, il peso di un matrimonio che non lo rende più felice lo porta a scegliere la via della separazione.

La moglie, convinta che questo non rappresenti un motivo sufficiente per mettere fine al loro matrimonio, ne rimane sconvolta, delusa e anche negativamente sorpresa. Per questo cerca di opporsi, sostenendo che la lontananza da casa, cui è stata costretta, non sia una libera scelta, ma una necessità dettata dalla sua attività professionale.

Decidere di separarsi per intollerabilità della convivenza è una delle prime cause che portano alla separazione oltre ad essere un diritto legittimo di ogni coniuge.

Chiunque può chiedere, e ottenere, la separazione personale nel momento in cui viene meno quella comunione spirituale e materiale su cui il matrimonio è fondato. In altre parole, ciascuno dei due coniugi può chiedere la separazione se la convivenza coniugale è divenuta del tutto insostenibile o se è ravvisabile  un grave pregiudizio all’educazione dei figli.

L’intollerabilità della convivenza può essere avvertita anche da uno solo dei coniugi e non dipendere necessariamente da comportamenti che violano i doveri matrimoniali (come l’infedeltà), ma semplicemente ricondursi a fatti che materialmente o moralmente rendano la convivenza impossibile da continuare, come la classica incompatibilità tra caratteri fino ad arrivare a questioni più delicate come maltrattamenti o la decisione unilaterale d’interrompere una gravidanza.

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La solidarietà coniugale “in ricchezza e in povertà” continua anche da separati

Due coppie, entrambe sposate, residenti nella stessa città, ma con diversissime capacità economiche. La prima abita in un bilocale di un quartiere periferico ed è la classica famiglia monoreddito: la moglie è casalinga, il marito è l’unico ad avere un impiego. Il suo però è uno stipendio piuttosto esiguo, tant’è che la somma che percepisce a malapena risulta sufficiente per coprire tutte le spese. La seconda, invece, vive in un attico nel pieno centro storico. Entrambi i coniugi provengono da famiglie abbienti. La moglie, che non lavora, si occupa dell’amministrazione e della gestione delle proprietà immobiliari in affitto sue e del marito, che invece è un affermato manager.

In caso di separazione, le due mogli – entrambe inoccupate – potrebbero chiedere un assegno di mantenimento e, con molte probabilità, entrambe potrebbero vederselo riconosciuto.

L’indipendenza dell’assegno di mantenimento dallo status economico

L’assegno di mantenimento si fonda sul principio di solidarietà coniugale e ha natura prettamente assistenziale. Il suo scopo infatti è riequilibrare l’eventuale sbilanciamento economico che potrebbe venirsi a creare conseguentemente alla separazione. Con questo scopo, l’ordinamento italiano prevede che la parte economicamente più forte della coppia supporti quella più debole, perché questa possa essere in grado di godere del tenore di vita avuto durante la convivenza matrimoniale.

Appare quindi con molta chiarezza come l’eventuale riconoscimento di un assegno di mantenimento dipenda da un principio “universale” di assistenza che non ha diretti legami col fattore reddituale o economico della coppia. Naturalmente, quando viene determinato l’ammontare dell’assegno, la valutazione delle risorse economiche e patrimoniali ha il suo peso; tuttavia, non è in funzione di quelle risorse che il Giudice stabilisce a priori se un coniuge abbia o meno il diritto a ricevere l’assegno.

L’esigua capacità economica del marito appartenente alla prima coppia, o la ricchezza dei coniugi della seconda, quindi, non sempre rappresentano un fattore determinante in fase di riconoscimento dell’assegno di mantenimento.

Nel primo caso, infatti, il Giudice potrebbe comunque individuare un soggetto più debole nella figura della moglie e imporre quindi al marito il versamento di un contributo, seppur minimo, per far fronte alle esigenze primarie di vita.

Nel secondo, viceversa, il tenore di vita della coppia durante la convivenza coniugale potrebbe risultare talmente elevato, da non essere sostenibile da parte del coniuge in posizione di svantaggio con i suoi soli mezzi. In altre parole, la moglie, per quanto abbiente, potrebbe ottenere comunque l’assegno di mantenimento, perché tutte le sue disponibilità potrebbero non bastare per garantirle lo stile di vita fino a quel momento goduto.

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Mi ha tradito, mi separo!

La scoperta peggiore che rompe la coppia: il tradimento, che arriva come un uragano a spazzare via la serenità coniugale. Chi viene tradito soffre perché sente la mancanza di rispetto dell’altro, perché si vede messo in secondo piano e perché ogni promessa, sotto questa prospettiva, suona come una menzogna.

Teniamo presente, però, che il tradimento può non essere esclusivamente fisico, anche nel caso in cui non venga consumato oppure se il coniuge lasci intendere l’esistenza di relazioni extraconiugali, magari solo fittizie, viola la fedeltà. Pensiamo a chi si vanta con gli amici di avventure immaginarie o a chi pubblica su Facebook foto in atteggiamenti equivoci, magari con commenti allusivi.

L’infedeltà come causa di addebito della separazione

 Accecati dal rancore e dal dolore, talvolta siamo portati a spingerci verso il desiderio di vendetta, cercando di avere la nostra rivincita davanti al Giudice. E’ bene sapere, però, che non sempre il tradimento può avere rilievi giuridici tali da portare all’addebito della separazione.

Se è vero che l’infedeltà rappresenta la violazione di un obbligo coniugale, il tradimento può essere addebitato al coniuge fedifrago solo se è effettivamente l’unica causa scatenante della crisi coniugale e della rottura cui deriva la volontà di separarsi. In altri termini, deve essere l’unica causa che provi l’intollerabilità della convivenza e la fine della comunione spirituale. Quando la crisi è provocata da un insieme di altri fattori (ad esempio l’incompatibilità caratteriale o semplicemente la fine dell’amore), difficilmente sarà possibile riconoscere la separazione con addebito anche davanti ad un tradimento.

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La separazione consensuale ed i limiti all’autonomia dei coniugi

Fortunatamente, non tutte le separazioni sono accompagnate da fragorosi momenti di conflittualità tra le parti. Spesso accade che, per i più svariati motivi, i coniugi decidono di comune accordo di separarsi, nel rispetto del sentimento e dell’affetto che li ha uniti fino ad allora. In molti casi marito e moglie, quindi, concordano le condizioni della separazione, non solo per quel che riguarda l’affidamento e il mantenimento degli eventuali figli, ma anche per quel che concerne gli aspetti patrimoniali. Potrebbero dunque stabilire di risolvere la questione economica definendo una somma di denaro da versare in un’unica soluzione e concordando il passaggio di proprietà di alcuni immobili dal marito alla moglie.

La separazione consensuale

La separazione consensuale prevede un procedimento molto più breve rispetto alla separazione giudiziale. Dopo aver depositato congiuntamente il ricorso, che riporta le concordate condizioni, è prevista un’unica udienza presidenziale, durante la quale il Presidente del Tribunale tenta la conciliazione. Se il tentativo di conciliazione fallisce, viene valutata la legittimità degli accordi che, in caso positivo, vengono omologati dal Tribunale..

Il Tribunale deve valutare se le condizioni stabilite dai coniugi siano legittime sia nell’interesse degli eventuali figli che nel rispetto dell’uguaglianza tra i coniugi ed i loro diritti. Se l’accordo non passa il vaglio, i due coniugi vengono invitati ad adottare opportune modifiche. Marito e moglie potranno decidere se seguire o meno le indicazioni ricevute, ma in ogni caso il Tribunale non modificherà d’ufficio l’accordo di separazione. Tutt’al più potrà decidere di non omologarlo: senza omologazione la separazione non avrà effetto.

I trasferimenti immobiliari e l’assegno in unica soluzione in sede di separazione

Negli ultimi tempi, per lasciare più autonomia ai coniugi, è concessa la possibilità di accordarsi su trasferimenti immobiliari o patrimoniali in unica soluzione, in alternativa all’assegno di mantenimento periodico. E’ però bene sottolineare che questi non rappresentano un’opzione “conveniente” da percorrere in sede di separazione perché non possiedono la caratteristica di immodificabilità tipica delle pattuizioni in sede di divorzio. L’una tantum divorzile, infatti, si contraddistingue per non essere modificabile e per estromettere il coniuge beneficiario da tutti gli altri diritti economici.

In fase di separazione, invece, entrambi i coniugi potrebbero in ogni momento procedere con una modifica delle condizioni laddove in futuro si verificasse qualche cambiamento significativo.

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