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Le divergenze sull’educazione dei figli che fanno separare

In caso d’intollerabilità della convivenza coniugale, uno dei coniugi può ottenere la separazione personale che può essere chiesta anche se ci sono divergenze che possono causare pregiudizio all’educazione dei figli.

Immaginiamo che marito e moglie non riescano a trovare un accordo sull’idea che il figlio, ancora minorenne, possa frequentare un’accademia militare in un Paese straniero. Le opinioni divergono a tal punto che le liti, la tensione e la conflittualità – anche non verbale – finiscono per aprire una frattura insanabile nella coppia. Marito e moglie si ritrovano così a vivere da separati in casa: limitano il dialogo alle comunicazioni di servizio, dormono in letti separati, cercano di evitarsi una volta rientrati dopo il lavoro, trascorrono il loro tempo libero in maniera indipendente l’uno dall’altra. In una situazione simile, entrambi potrebbero poco a poco maturare la decisione di separarsi.

Il pregiudizio all’educazione dei figli

E’ bene precisare che la scelta di porre fine alla convivenza matrimoniale deve sempre essere ricercata all’interno della coppia. Ne consegue che, se una decisione in particolare viene ritenuta da uno dei due coniugi pregiudizievole per i figli, questa può essere considerata talmente grave da farli decidere a lasciarsi.

D’altra parte, è anche vero che l’incomunicabilità dovuta alla netta presa di posizione dei coniugi finirebbe per generare un clima realmente invivibile e, dunque, contribuirebbe a creare quell’intollerabilità della convivenza coniugale che, com’è già stato rilevato, rappresenta di per sé causa di separazione.

Nel caso in cui i due coniugi continuino a non trovare accordo sulle scelte relative ai figli ed alla loro educazione, ma ciò non contribuisce a rendere la convivenza insostenibile, sarà possibile ricorrere al Giudice non per separarsi, ma per fargli prendere provvedimenti che prevedano la decisione migliore nell’interesse dei figli fino anche la limitazione o la decadenza dalla responsabilità genitoriale.

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La separazione che fa dividere la casa familiare

Separarsi significa in primo luogo lasciare la casa in cui si ha convissuto per anni e dove, probabilmente,  sono nati e cresciuti i figli. Concretamente questo implica la ricerca di un’altra sistemazione, il trasferimento delle proprie cose in uno spazio nuovo, il contendersi con l’ex quegli oggetti che hanno segnato la storia comune, magari oggetti privi di un valore economico, ma carichi di un significato simbolico e di un valore affettivo. Lasciare l’abitazione coniugale si rivela perciò un passaggio duro, amaro, che diventa ancora più complesso se insieme alla casa si devono lasciare anche i figli e se le risorse economiche di cui si dispone sono scarse, tanto da rischiare di non potersi permettere neppure l’affitto di una nuova abitazione.

La casa coniugale: i principi di assegnazione

E’ bene fare una premessa per chiarire il concetto di “casa coniugale”. Con questa definizione s’intende l’habitat domestico, cioé il luogo degli affetti, quello in cui tutti i membri della famiglia hanno convissuto e si sono relazionati fino al momento della separazione. Va da sè, quindi, che l’eventuale seconda casa al mare non potrà rientrare in questa definizione, né potrà essere soggetta agli stessi criteri di assegnazione. 

E’ previsto che, in caso di separazione, la casa familiare venga assegnata al coniuge collocatario, cioé il genitore con il quale vivranno prevalentemente i figli, sia che siano minorenni sia che siano maggiorenni ma non ancora autonomi dal punto di vista economico o portatori di handicap. A “ispirare” la norma, infatti, è l’interesse dei figli e la volontà di assicurare loro la possibilità di crescere nel luogo che da sempre conoscono e riconoscono come casa.

Una “pazza idea” in tempo di crisi

Ultimamente in certe situazioni hanno trovato accoglimento soluzioni singolari che possono consentire, di fatto, una condivisione degli spazi abitativi per i due coniugi: l’assegnazione parziale o il frazionamento dell’immobile familiare. Si tratta di ipotesi percorribili solo nei casi in cui siano riscontrabili determinate condizioni. Innanzitutto, l’abitazione deve essere sufficientemente grande da consentire la divisione della struttura in due unità abitative indipendenti; le parti devono versare effettivamente in condizioni economiche precarie tali da rendere non sostenibili le spese di mantenimento personali e dei figli con il reperimento di un’altra abitazione. Altra condizione determinante è che i coniugi non vivano una profonda conflittualità per non trasformare il rapporto di “particolare vicinato” in un prevedibile inferno. Se lo scopo primario, infatti, è venire incontro agli eventuali problemi economici dei coniugi, il fine che deve sempre essere raggiunto è quello della serenità dei figli permettendo loro di mantenere rapporti continuativi con entrambi i genitori. Va da sè che, se tra i due separati, vi è una conflittualità permanente, la possibilità di un’assegnazione parziale della casa familiare viene scartata dal Giudice.

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Se separarsi di comune accordo è impossibile

Quando ci troviamo in un matrimonio in crisi, breve o lungo che sia, cercare di tenere insieme i pezzi a volte non basta e arriviamo davanti alla prospettiva della separazione. Sempre più frequenti discussioni, scatenate da motivazioni futili, creano un clima familiare di conflittualità perenne che non pesa solo sui coniugi ma anche sui figli, vittime non colpevoli dei diverbi tra adulti.

Sarebbe ipocrita non dire che in certi casi sono le questioni pratiche o economiche a frenare la decisione finale. Pensiamo ad una moglie, casalinga, dipendente economicamente dal marito: non potremmo non comprendere i timori che potrebbe provare all’idea di perdere la sicurezza economica sua e dei bambini, sapendo che il marito ostacolerebbe in ogni modo la separazione e, con probabilità, cercherebbe di farle cambiare idea minacciando di non passarle più alcun denaro.

Quando, però, superiamo i dubbi e le perplessità ma ci rendiamo conto che un accordo con il coniuge non è possibile, bisogna andare avanti con una procedura giudiziale.

Il procedimento di separazione giudiziale

Una volta depositato il ricorso, nel quale deve essere indicata l’eventuale presenza di figli, marito e moglie, con i rispettivi legali, devono presentarsi in udienza davanti al Presidente del Tribunale. Il Presidente tenterà una conciliazione e, se fallisce, ascolterà entrambi i coniugi e prenderà i provvedimenti provvisori e urgenti che regolano la situazione fino alla sentenza di separazione stabilendo, per esempio, l’assegnazione della casa coniugale e l’eventuale attribuzione dell’assegno di mantenimento al coniuge e ai figli. A quel punto inizierà l’iter giudiziario, che prevede tempi potenzialmente lunghi. Nonostante le lentezze della Giustizia, i provvedimenti presi del Presidente del Tribunale sono immediatamente esecutivi, quindi, l’obbligo di versare l’assegno di mantenimento al coniuge, ad esempio, decorre immediatamente.

I provvedimenti possono essere reclamati dinanzi alla Corte d’Appello per errori di valutazione commessi dal Presidente del Tribunale, ma nel frattempo continuano ad essere validi ed efficaci.

Possiamo affermare, quindi, che la moglie potrà agire con relativa tranquillità perché anche se teme un lungo iter processuale per ottenere la separazione, e si trova in condizione di totale dipendenza economica dal marito, può confidare sui provvedimenti provvisori e urgenti emessi alla prima udienza e validi immediatamente.

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Mi tradisce… voglio le prove per inchiodarlo

Il telefono è spesso staccato, il lavoro richiede sempre più tempo extra oltre il normale orario d’ufficio, le sere a casa vengono immancabilmente trascorse appartati in un’altra camera davanti al computer, tra e-mail, social network e messaggi sul cellulare che arrivano a qualsiasi ora. Piccoli segnali come questi, se considerati all’interno di una vita coniugale caratterizzata da un improvviso e freddo distacco, potrebbero alimentare il sospetto che il coniuge abbia una relazione sentimentale con un’altra persona. E si sa che, quando il dubbio viene insinuato, diventa difficile allontanare il pensiero.

Quando si sospetta l’infedeltà da parte del coniuge faremmo di tutto per avere una risposta certa, ma dobbiamo stare attenti a non commettere azioni illegittime. Istintivamente saremmo portati a cercare da soli le prove del tradimento, sbirciando sul telefonino e frugando tra gli effetti personali del partner. Le eventuali prove ottenute, però, potrebbero non essere utilizzabili in causa.

 Sulle tracce di una prova dell’infedeltà

Il Garante della privacy ha stabilito che è ammessa la possibilità di presentare davanti al Giudice prove che dimostrino la ripetuta violazione da parte dell’altro dell’obbligo di fedeltà coniugale. Il coniuge che porti in giudizio fotografie e video che dimostrano il tradimento da parte del partner in linea di massima non commette alcun illecito, ma il materiale deve essere pertinente alla causa e la raccolta di prove cronologicamente connessa ad essa. Ciò significa che materiali non strettamente legati all’ipotesi di tradimento, ad esempio foto scattate al coniuge in condizioni di ebbrezza, non solo non sarebbero rilevanti a provare l’infedeltà ma costituirebbero una palese violazione della sua privacy.

Analogamente, materiale “datato” che quindi sia stato raccolto molto prima della causa potrebbe essere considerato illegittimo.Facciamo un esempio per comprendere meglio. Il coniuge che decide d’installare sistemi d’intercettazione ambientale (ad esempio microspie o telecamere) rischierebbe di commettere un reato, perché l’intercettazione potrebbe svelare aspetti privati della persona che nulla hanno a che vedere con il procedimento di separazione.

Allo stesso modo aprire lettere o e-mail oppure usare le password dell’altro per accedere al conto corrente online o alle chat private sui social network, potrebbe avere anche delle conseguenze penali.

Per questi motivi potrebbe essere utile affidarsi ad un investigatore privato, soluzione di gran lunga preferibile a quella di agire personalmente, dato che spesso non siamo a conoscenza né dei metodi né dei limiti da rispettare. In ogni caso la pertinenza del materiale raccolto dovrà essere valutata dal Giudice in sede di causa.

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Intervenire contro i provvedimenti temporanei e urgenti ingiusti

Nel turbine di sconvolgimenti che comporta separarsi e che crea un giudizio di separazione siamo convocati per la prima udienza dinanzi al Presidente del Tribunale e assistiamo a quella che ci sembra un’ingiustizia ai nostri danni: provvedimenti temporanei nettamente svantaggiosi. La valutazione economica non ci sembra eseguita correttamente, e riteniamo, per esempio, che l’assegno di mantenimento che dovremo pagare sia troppo alto. Pensiamo di essere un marito che si vede obbligato a versare alla moglie un assegno particolarmente gravoso per le sue disponibilità e che debba accettare condizioni restrittive per le visite ai figli. Questo padre si trova non solo a dover abbandonare la sua casa, ma anche a doversi allontanare dai figli con la consapevolezza che potrà rivederli solo poche volte al mese. In una simile situazione potremmo uscire profondamente sconfortati ma è necessario sapere che abbiamo la possibilità di agire per difendere quei diritti che riteniamo violati.

Reclamare i provvedimenti temporanei e urgenti

Se si pensa che i provvedimenti definiti in fase presidenziale siano manchevoli o fondati su valutazioni sbagliate, il coniuge può effettuare un reclamo presso la Corte d’Appello. E’ però fondamentale agire tempestivamente. Il reclamo deve essere presentato entro 10 giorni dalla notifica del provvedimento.

Il reclamo permette unicamente il riesame dei provvedimenti presi e l’eventuale correzione dei potenziali errori commessi dal Presidente del Tribunale, sulla base dei documenti già presenti in giudizio .

Revisione e/o cancellazione dei provvedimenti temporanei e urgenti

 In caso contrario possiamo chiedere una correzione successiva. La fase istruttoria succede alla primissima fase presidenziale, quando il tentativo di conciliazione non è a andato a buon fine. E’ condotta dal Giudice Istruttore, che avrà il compito di esaminare le prove prodotte dalle parti per arrivare alla sentenza definitiva.

Questa è una fase che potrebbe essere lunga perché può prevedere indagini finalizzate a provare e valutare l’effettiva condizione economica e patrimoniale dei coniug,i ma anche per individuare i provvedimenti migliori nell’interesse dei figli.

E’ in questo momento del processo che i provvedimenti temporanei e urgenti definiti in udienza presidenziale possono essere modificati con la presentazione di un’istanza di revoca o modifica di uno dei coniugi o d’ufficio da parte del Giudice Istruttore. Infatti, qualora cambiassero le condizioni di vita dei coniugi o durante le indagini emergessero nuovi scenari, il Giudice Istruttore potrebbe revisionare o cancellare del tutto i provvedimenti presi dal Presidente del Tribunale.

Per tutelarci, quindi, dobbiamo prestare attenzione ai tempi per agire ed al soggetto competente per decidere che può essere la Corte d’Appello o il Giudice Istruttore.

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Quando le molestie in famiglia diventano mobbing o stalking

Dieci anni di convivenza coniugale e la persona che prima amavamo inizia ad assumere atteggiamenti via via sempre più arroganti, offensivi per non dire tirannici magari approfittando del nostro carattere pacato. Riversare sull’altro problemi e nervosismi, rimproverarlo per le più banali motivazioni e denigrarlo anche in presenza di amici e parenti. Qualsiasi ragione buona per mortificarlo: dal modesto impiego alla non più atletica forma fisica.

Quando da mogli o mariti realizziamo di essere diventati, di fatto, un capro espiatorio arriva il momento in cui riusciamo a dire basta, e lasciare che tutto finisca. Storie del genere sono all’ordine del giorno e, spesso, è davanti al Giudice della separazione che queste realtà vengono sviscerate per ottenere l’addebito della separazione ai danni del coniuge che ha distrutto l’unione con le sue subdole prepotenze, anche psicologiche. In simili situazioni, negli ultimi anni, i Giudici hanno riscontrato veri e propri fenomeni di mobbing familiare.

Dal mobbing familiare allo stalking

Nelle situazioni più gravi, quando l’altro non si rassegna ed è incapace di accettare l’abbandono, potrebbero anche subentrare veri e propri comportamenti persecutori: telefonate a tutte le ore, minacce, pedinamenti, atti di vandalismo, sono solo esempi di azioni ossessive che rendono la vita impossibile.

Dal 2009 è stato introdotto un vero e proprio reato per tutelare le vittime di queste azioni, oggi comunemente conosciute come stalking ossia “sindrome del molestatore assillante”. Il termine indica tutti quei comportamenti assillanti e invasivi della vita altrui che vengono messi in atto e ripetuti consapevolmente. Si tratta di atti persecutori intenzionali che mirano a provocare nella vittima un grave stato di ansia e paura se non addirittura il timore per la propria incolumità o quella delle persone più vicine (un figlio, un parente, ma anche chiunque sia legato da una relazione affettiva).

 E’ bene ricordare che chi è vittima di simili tormenti non deve esitare ad agire per timore di ritorsioni; potrà infatti ottenere dal Tribunale dei provvedimenti di protezione anche prima dell’eventuale inizio del procedimento di separazione. Questo deve invogliare a denunciare il comportamento del partner, o dell’ex, che potrà essere combattuto civilmente, con l’addebito della separazione, e penalmente con una severa sanzione.

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Addebito: cos’è e quali sono le conseguenze

Tutti siamo consapevoli che esiste l’amore fiabesco e che il “vissero felici e contenti” non riempie solo le pagine dei libri di favole ma anche la vita di tante coppie normali. Per questo non siamo guastafeste ma semplici osservatori della realtà se prendiamo in considerazione i moltissimi casi di coppie che si lasciano, magari anche piuttosto male. Anni di discussioni fanno dimenticare i momenti felici e lasciano entrambi in uno stato di triste apatia. Pensiamo, per esempio, come si sentirebbe una moglie se il comportamento del marito negli anni diventasse denigratorio, insopportabile ed umiliante anche davanti ai figli. Nonostante gli anni trascorsi insieme, potrebbe scegliere di separarsi, esasperata e psicologicamente provata dal comportamento di lui.

L’addebitabilità della separazione

Se il comportamento volontario e consapevole di uno dei due coniugi genera il clima oggettivamente intollerabile della convivenza, o contrasta con i doveri matrimoniali, e questo sta alla base della richiesta di separazione è possibile che sia accolta una richiesta di addebito a carico di quel coniuge. Deve però esserci una correlazione causa-effetto tra il comportamento manchevole del coniuge e la crisi coniugale. Se infatti la condotta contraria ai doveri coniugali fosse la conseguenza di una crisi già in corso, la separazione verrebbe pronunciata senza addebito. Non solo: la condotta contraria ai doveri matrimoniali deve essere intenzionale e non il frutto di nevrosi o malattie di origine psicotica.

Effetti dell’addebito della separazione

In caso di addebito della separazione ci sono conseguenze importanti per il coniuge che perde il diritto all’assegno di mantenimento ed i diritti successori. In particolare il coniuge avrebbe diritto solo all’assegno alimentare nel caso in cui non avesse mezzi di sostentamento propri. Tale assegno copre solo gli essenziali bisogni di vita a differenza dell’assegno di mantenimento che è parametrato al tenore di vita goduto durante il matrimonio.

I doveri del coniuge

Cosa intendiamo quando parliamo di doveri del coniuge? Quando ci sposiamo, contraiamo cinque doveri nei confronti del coniuge: l’obbligo di fedeltà materiale e morale, l’obbligo all’assistenza, l’obbligo alla collaborazione nell’interesse della famiglia, l’obbligo di contribuzione ai bisogni della famiglia e l’obbligo di coabitazione. Se il comportamento di nostra moglie o di nostro marito viola gravemente gli obblighi matrimoniali causando l’irreparabile rottura dell’unione e la separazione, quest’ultima potrebbe venir addebitata al coniuge responsabile del comportamento contrario ai suoi doveri.

La valutazione viene compiuta dal Giudice in base all’effettiva situazione del nucleo familiare. Questo significa che lo stesso comportamento che in una coppia può causare l’addebito della separazione, in un altro caso può non portare allo stesso risultato.

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La conversione religiosa nel rapporto di coppia

Se fino a pochi decenni fa era raro incontrare persone di diverse etnie e differenti confessioni religiose, oggi è una realtà all’ordine del giorno. Le società occidentali contemporanee sono multiculturali: popolazioni provenienti da ogni angolo del mondo inevitabilmente si incontrano con tutti i pro ed i contro che facilmente immaginiamo. Per alcuni, avvicinarsi ad usi e riti appartenenti a paesi o religioni distanti dal vissuto quotidiano è soltanto una moda passeggera, ma per altri può significare un cambio radicale di abitudini e convinzioni difficile da gestire.

Immaginiamo cosa potrebbe accadere in una famiglia se la moglie cambiasse religione. Un nuovo gruppo di preghiera, strane abitudini alimentari, cerimonie sconosciute, stravolgono le abitudini casalinghe. Lei dedica sempre più tempo allo studio del suo nuovo credo, è sempre più spesso fuori casa e, quando è presente, ha atteggiamenti singolari anche davanti ai figli piccoli, che cerca di iniziare alla nuova fede. Nella coppia probabilmente non ci sarebbe più un confronto sereno e obiettivo, soprattutto perché il marito difficilmente accetterebbe che i bambini seguissero le nuove scelte della madre. Una convivenza su due mondi così distanti sarebbe impossibile per i coniugi e le liti continue porterebbero, con probabilità, alla separazione. Ma ci potrebbero essere ulteriori conseguenze per la moglie nell’ambito del giudizio?

La fede religiosa non può essere causa di addebito della separazione

In sé e per sé la decisione di cambiare fede non è un fattore rilevante ai fini della separazione, né può essere considerato motivo di addebito. Il nostro è uno stato laico quindi chiunque è libero di professare qualsiasi confessione religiosa. Quando il credo religioso di uno dei due coniugi interferisce nella vita matrimoniale provocando una crisi irrisolvibile, infatti, diviene la causa che rende intollerabile la prosecuzione della convivenza. Se, però, la conversione porta il coniuge a violare i suoi doveri matrimoniali, il partner potrebbe decidere di chiedere non solo la separazione ma anche l’addebito.

 I riti o le nuove usanze della moglie, quindi, non sono in linea di massima motivi sufficienti per i quali il marito possa ottenere la separazione con addebito. La situazione sarebbe diversa se le sue scelte si rivelassero dannose per i figli oppure se avesse comportamenti gravemente contrari ai suoi doveri verso la famiglia o il marito, per esempio optare per scelte sessuali orientate alla promiscuità oppure non coabitare più con il marito o ancora smettere di collaborare nell’interesse della famiglia.

Non possono esistere regole certe perché la complessità di situazioni come queste impone una valutazione mirata e specifica da parte del Giudice, che esaminerà sempre il caso concreto prima di prendere la decisione più opportuna.

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Tollerare le mancanze dell’altro non significa rinunciare ai propri diritti

Spesso, quando si parla di mancato rispetto dei doveri coniugali, si tende a pensare all’infedeltà. Ma quello della fedeltà nei confronti del coniuge non è l’unico obbligo che c’è tra due persone sposate. Per esempio marito e moglie dovrebbero contribuire insieme ai bisogni della famiglia e collaborare nel suo interesse. Se, nel corso degli anni, uno dei due viene meno a quest’impegno, causando una crisi irreparabile che porta la coppia a lasciarsi, tale comportamento potrebbe determinare l’addebito della separazione.

Per provare a fare un esempio concreto, potremmo pensare ad una moglie che da qualche anno ha smesso di contribuire, sia materialmente che moralmente, alle necessità familiari. Lavoratrice saltuaria, nei primi anni del matrimonio si è dedicata alla gestione della casa e, dopo la nascita dei figli, alla loro crescita ed educazione. Col tempo, il suo impegno lavorativo è progressivamente calato. Ritenendo insoddisfacente ogni impiego che le veniva proposto, ha finito per autoescludersi dal mercato del lavoro. In parallelo, anche l’apporto all’interno della famiglia si è ridotto considerevolmente. E’ diventata utente abituale di siti internet di gioco d’azzardo, dove spende gran parte del denaro utile a far fronte alle spese domestiche. Il marito, per il bene dei figli e l’amore per la moglie, inconsapevole del suo vizio, ha sopperito a lungo alle mancanze di lei, tollerando la sua apatica condotta. Ha resistito e cercato di salvare a ogni costo il matrimonio, ma venuto a scoprire del vizio del gioco, la classica goccia che fa traboccare il vaso, decide di chiedere la separazione.

L’irrilevanza della tolleranza ai fini dell’addebito della separazione

Il marito potrebbe ottenere la separazione con addebito alla moglie anche se ha tollerato per molto tempo il comportamento di quest’ultima.

La “pazienza” del marito si è basata sulla volontà di salvare a tutti i costi il rapporto con la moglie: è in quest’ottica che ha deciso di mettere davanti ai propri sentimenti quelli della famiglia e dei figli. D’altronde, chi sbaglia potrebbe rendersi conto dell’errore commesso e decidere di rimediare: ecco perché la tolleranza potrebbe essere la soluzione migliore per rimediare a una crisi temporanea. Va da sé che, se nulla cambia da parte del coniuge che ha agito malamente, la sopportazione potrebbe terminare e questo non deve influire sulla possibilità dell’altro coniuge di far valere fino in fondo i propri diritti.

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L’assegno di mantenimento non deve comprendere prestiti o regalie

Prima della crisi che ha portato alla scelta di separarsi, marito e moglie si erano accordati per avviare l’attività commerciale di lei. Fino al momento dello strappo, il marito ha quindi finanziato economicamente il progetto della moglie, ma all’indomani della richiesta di separazione l’attività commerciale non risulta ancora avviata e lui non ha più intenzione di darle altro denaro. La moglie, che al momento della separazione non lavora, vorrebbe avere un assegno di mantenimento che le permetta anche di poter proseguire autonomamente il suo progetto imprenditoriale.

Determinazione dell’assegno di mantenimento

L’assegno di mantenimento ha natura assistenziale ed è basato sul principio di solidarietà coniugale. Il suo scopo è permettere alla parte economicamente più svantaggiata della coppia di mantenere lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio (o potenzialmente godibile in base ai redditi percepiti e alla situazione patrimoniale complessiva).

Per riconoscere l’assegno di mantenimento, il Giudice deve in primo luogo compiere una valutazione del tenore di vita coniugale e verificare se ci sono tutti i presupposti. Ciò significa che il coniuge potenzialmente beneficiario dell’assegno deve dimostrare di non avere i mezzi necessari per poter mantenere, da separato, lo stile di vita precedente né deve essere in grado di procurarseli. Non solo: per poter ottenere l’assegno è indispensabile che la separazione non venga addebitata al coniuge che ne fa richiesta. L’addebitabilità della separazione, infatti, fa automaticamente decadere il diritto all’assegno. Essenziale sarà pure la disponibilità dell’altro coniuge di mezzi idonei a sostenere le spese di mantenimento.

Il Giudice, dopo aver determinato il tenore di vita coniugale, valuterà la situazione patrimoniale dei due coniugi, considerando non solo l’attività svolta da ciascuno dei due, ma anche la rispettiva capacità di guadagno e gli eventuali beni di proprietà.

La somma dovrà consentire al coniuge beneficiario lo svolgimento di attività inerenti lo sviluppo della vita personale, fisica, culturale e di relazione, come attività sportive e ricreative. Tuttavia, non viene genericamente previsto che esso venga utilizzato per effettuare investimenti o per consentire l’avvio o lo svolgimento di un’eventuale attività imprenditoriale soprattutto nei casi in cui sul punto non esiste un accordo tra le parti.

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Shopping compulsivo: in caso di separazione, si è a rischio di addebito

Molto spesso si è talmente sicuri di conoscere a fondo una persona, specie se è quella con cui si è scelto di vivere il resto della propria vita, che quando si scoprono lati nascosti o particolari scomodi che la riguardano, si fa fatica a credere che questi siano veri.

Pensiamo ad un marito che, dopo anni di matrimonio, inizia a notare che la moglie spende cifre esorbitanti per l’acquisto di beni futili, come abiti, gioielli, borse, cosmetici. Nonostante le ottime disponibilità economiche della famiglia, si rende conto che la moglie non ha la minima capacità di amministrare le finanze familiari e che le sue spese frivole sono il frutto di un impulso irrefrenabile all’acquisto. Il marito perde la fiducia e le liti dovute ai continui sprechi di lei si susseguono diventando sempre più accese, finché il marito decide di agire e chiedere la separazione. In questo caso egli potrebbe ottenere anche l’addebito a carico della moglie

Questo si verificherebbe se si dimostrasse che la causa della separazione è proprio il comportamento irresponsabile della moglie che ha sperperato molto denaro sottraendo risorse destinate alla famiglia e trascurandone gli affetti.

La moglie perderebbe il diritto all’assegno di mantenimento e, tutt’al più, le verrebbe riconosciuto il solo assegno alimentare, che sarebbe decisamente meno oneroso per il marito. Gli alimenti, infatti, hanno lo scopo di far fronte alle sole esigenze primarie di vita e non al mantenimento del tenore di vita goduto durante il matrimonio.

Lei, però, potrebbe sostenere la sua innocenza e pretendere che le venga riconosciuto un assegno di mantenimento che, date le disponibilità del marito potrebbe raggiungere una somma piuttosto importante.

L’eccezionalità del disturbo da shopping compulsivo

Il Giudice, per valutare oggettivamente un caso come questo con ogni probabilità farà svolgere una consulenza tecnica d’ufficio (o CTU), al fine di esaminare approfonditamente la personalità della moglie e capire fino a che punto risulti compromessa.

Solitamente, in caso di nevrosi o malattie di origine psicotica non può essere riconosciuto l’addebito della separazione. Tuttavia, secondo la Cassazione, lo shopping compulsivo può rappresentare un caso a parte perché legato ad un mero appagamento di bisogni personali fine a se stessi.

Quindi, qualora la CTU confermasse la diagnosi di shopping compulsivo, e questa fosse la causa dell’intollerabilità della convivenza, molto probabilmente la separazione verrebbe addebitata alla moglie, con tutte le conseguenze del caso.

Teniamo presente comunque che queste situazioni costituiscono episodi a sé stanti, che devono essere analizzati e valutati in maniera indipendente l’uno dall’altro.

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Quando il rifiuto dell’intimità causa l’addebito della separazione

Nella comunicazione contemporanea l’astinenza sessuale durante il matrimonio è diventata motivo d’ironia nell’eterno gioco tra le parti, ma da un punto di vista più strettamente giuridico rappresenta una violazione dell’obbligo coniugale di assistenza morale.

Il marito che, ad esempio, respinge ogni tipo di rapporto sessuale o affettivo con la moglie è responsabile di un comportamento lesivo e offensivo nei suoi confronti, perché i ripetuti rifiuti possono provocarle, alla lunga, frustrazione e disagio. Basti pensare a quanto possa risentirne la dignità della moglie, umiliata di fronte a ogni rifiuto.

L’astinenza fa scoppiare la coppia

Se l’astinenza non è dettata da malattie fisiche o motivazioni psicologiche, l’intimità contribuisce a creare e fortificare la comunione materiale e spirituale sulla quale si fonda il matrimonio. E’ l’amore, anche carnale, a tenere in vita un rapporto.

Sotto questa prospettiva, il rifiuto ad avere rapporti sessuali con il coniuge, se non debitamente motivato, può comportare l’affievolirsi di quella comunione coniugale che è base della vita a due. Un simile atteggiamento può ferire profondamente tanto quanto un tradimento: fa male, e chi subisce il rifiuto, spesso, si tormenta interiormente, nel vano tentativo di capire cosa non vada più bene in lei o in lui. Il fatto di non essere più desiderati colpisce gravemente la dignità di chi si vede ogni volta respinto, generando, col tempo, persino possibili disagi psicofisici.

Di fatto, il rifiuto d’intrattenere rapporti affettivi e sessuali del coniuge rappresenta causa sufficiente per chiedere la separazione e l’addebito della stessa e, in genere, non può essere giustificato come ritorsione o reazione rispetto al comportamento dell’altro e, nel caso in cui la moglie chiedesse la separazione perché non sopporta più di vedersi rifiutata dal marito, il Giudice potrebbe dichiarare l’addebito della separazione a quest’ultimo.

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