Per contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione (Corte Costituzionale n. 78 del 21 marzo 2002, Pres. Ruperto, Red. Onida).
Il Giudice civile può essere ricusato dalla parte nei casi previsti dall’art. 51 cod. proc. civ. (interesse nella causa, legame di parentela, grave inimicizia etc.). L’art. 54 cod. proc. civ. prevede che, in caso di accoglimento del ricorso, sia designato il giudice che deve sostituire quello ricusato e che in caso di mancato accoglimento, l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione “condanna la parte o il difensore che l’ha proposta, ad una pena pecuniaria non superiore a lire ventimila”. Quest’ultima disposizione (art. 54, terzo comma cod. proc. civ.) è in contrasto con l’art. 24 Cost. Rep., che garantisce il diritto di agire in giudizio. Infatti essa pone per il Giudice l’obbligo di applicare la sanzione pecuniaria. Tale rigido automatismo sanzionatorio non consente di derogarvi nemmeno nel caso – che non si può a priori escludere – in cui la ragione della inammissibilità o della infondatezza della ricusazione non fosse percepibile dal ricusante all’atto della presentazione del ricorso.
L’accedere della condanna sempre e necessariamente alla reiezione del ricorso, indipendentemente dalle circostanze del caso concreto, apprezzabili dal giudice, comporta un’irragionevole compressione di tale diritto, in contrasto con il principio di eguaglianza. Si viene infatti a trattare allo stesso modo, sotto il profilo dell’applicazione della sanzione, la posizione di chi ha proposto la ricusazione ragionevolmente fidando nella sua ammissibilità e nella sussistenza delle ragioni su cui essa si fondava, e quella del ricorrente che non versi in tale situazione. Sono dunque violati gli articoli 3 e 24 della Costituzione.
L’eliminazione dell’automatismo comporta l’attribuzione al decidente del potere di apprezzare, nel caso concreto, se sussistano le condizioni per escludere la condanna alla pena pecuniaria, o se invece la stessa debba trovare applicazione: e dunque alla necessità della condanna, attualmente prevista, si deve sostituire il potere del giudice di applicarla, apprezzando le eventuali circostanze del caso concreto che la rendano ingiustificata. Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, terzo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede che l’ordinanza, che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione, “condanna” la parte o il difensore che l’ha proposta ad una pena pecuniaria, anziché prevedere che “può condannare” la parte o il difensore medesimi ad una pena pecuniaria.
ANCHE NEL PROCESSO DEL LAVORO L’APPELLATO DEVE ESPORRE DETTAGLIATAMENTE TUTTE LE DIFESE SVOLTE NEL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO
Non è sufficiente un richiamo generico (Cassazione Sezione Lavoro n. 12692 del 17 ottobre 2001, Pres. Sciarelli, Rel. De Biase).
Nel processo ordinario l’art. 346 cod. proc. civ. pone l’onere di riproporre espressamente in appello le domande e le eccezioni non accolte in primo grado o rimaste assorbite, sotto pena di loro esclusione dal tema del giudizio. Questo principio opera anche nelle controversie soggette al rito del lavoro, per il quale l’art. 436 cod. proc. civ. fa obbligo all’appellato di costituirsi mediante deposito di memoria contenente un’esposizione dettagliata di tutte le sue difese, sicché il mero richiamo generico, in tale memoria, alle conclusioni precisate in primo grado, non è sufficiente a manifestare in modo chiaro e univoco la volontà di sottoporre al giudice dell’appello una domanda o un’eccezione non accolta dal primo giudice.
LA COMPENSAZIONE DEVE ESSERE ECCEPITA AL MOMENTO DELLA COSTITUZIONE NEL GIUDIZIO DI PRIMO GRADO
Non può essere applicata dal giudice d’ufficio (Cassazione Sezione Lavoro n. 13189 del 15 ottobre 2001, Pres. Saggio, Rel. Balletti).
Il datore di lavoro chiamato in giudizio dal dipendente che rivendichi il pagamento di spettanze retributive, se intende eccepire in compensazione un proprio credito deve farlo nella memoria difensiva che, in base all’art. 413 cod. proc. civ., va depositata dieci giorni prima dell’udienza di discussione. La questione relativa all’esistenza, alla natura ed all’importo dei crediti da opporre eventualmente in compensazione a quelli dedotti in giudizio dalla controparte non è rilevabile di ufficio ed è soggetta all’onere di allegazione e di prova: essa costituisce, pertanto, eccezione in senso stretto e non già mera argomentazione difensiva; come tale deve essere proposta, a pena di decadenza, nella memoria difensiva in sede di giudizio di primo grado, a norma dell’art. 416, secondo comma, cod. proc. civ.
LA QUESTIONE DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DI UNA NORMA DI LEGGE PUÒ ESSERE SOLLEVATA ANCHE IN SEDE DI ARBITRATO RITUALE
Perché gli arbitri svolgono attività giurisdizionale (Corte Costituzionale n. 376 del 28 novembre 2001, Pres. Ruperto, Red. Marini).
In caso di arbitrato rituale, il collegio arbitrale può sollevare la questione di legittimità costituzionale di una norma di legge. L’arbitrato costituisce un procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria. Sotto questo aspetto, il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione, anche per quanto riguarda la ricerca e l’interpretazione delle norme applicabili alla fattispecie.
Il dubbio sulla legittimità costituzionale della legge da applicare non è diverso, in linea di principio, da ogni altro problema che si ponga nell’itinerario logico del decidente al fine di pervenire ad una decisione giuridicamente corretta: anche le norme costituzionali, con i loro effetti eventualmente invalidanti delle norme di legge ordinaria con esse contrastanti, fanno parte del diritto che deve essere applicato dagli arbitri i quali – come ogni giudice – sono vincolati al dovere di interpretare le leggi “secundum Constitutionem”.
In un assetto costituzionale nel quale è precluso ad ogni organo giudicante tanto il potere di disapplicare le leggi, quanto quello di definire il giudizio applicando leggi di dubbia costituzionalità, anche gli arbitri – il cui giudizio è potenzialmente fungibile con quello degli organi della giurisdizione – debbono utilizzare il sistema di sindacato incidentale sulle leggi.
IL “TRATTENIMENTO” DEL CITTADINO STRANIERO ESPULSO, IN ATTESA DELL’ACCOMPAGNAMENTO ALLA FRONTIERA, NON PUÒ ESSERE DISPOSTO PIÙ DI UNA VOLTA
Perché si tratta di un’eccezionale limitazione della libertà personale (Cassazione Sezione Prima Civile n. 15203 del 29 novembre 2001, Pres. De Musis, Rel. Cappuccio).
Nei confronti del cittadino straniero che abbia subito un provvedimento di espulsione dal territorio nazionale il Questore può disporre il trattenimento per non oltre venti giorni presso un centro di permanenza temporanea, quando non è possibile eseguire con immediatezza l’accompagnamento alla frontiera. Il provvedimento del Questore deve essere convalidato dal Giudice.
Gladys O., cittadina nigeriana, è stata sottoposta dal Questore di Frosinone a due successivi provvedimenti di trattenimento. In sede di convalida essa ha sostenuto che la legge non consente la reiterazione del trattenimento. Il Tribunale di Roma ha ugualmente disposto la convalida, osservando che la reiterazione non è vietata dalla legge e che il primo trattenimento si era esaurito senza esito per decorrenza dei termini. Gladys O. ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che la decisione del Tribunale di Roma era viziata da violazione di legge.
La Suprema Corte (Sezione Prima Civile n. 15203 del 29 novembre 2001, Pres. De Musis, Rel. Cappuccio) ha accolto il ricorso. Poiché il trattenimento è un provvedimento eccezionale, in quanto limita la libertà individuale – ha affermato la Corte – deve escludersi che, in mancanza di una norma di legge che espressamente consenta la sua rinnovazione, esso possa essere reiterato; il decorso del tempo di trattenimento comporta che l’accompagnamento o il respingimento debbano trovare immediata esecuzione, non sussistendo più alcuna causa legittima di ritardo.
L’AVVOCATO DEVE RISPETTARE GLI IMPEGNI ASSUNTI CON UN COLLEGA PER IL COMPIMENTO DI ATTI PROCESSUALI
Non mantenere la parola data è una grave mancanza deontologica (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 15713 del 12 dicembre 2001, Pres. Cantillo, Rel. Paolini).
L’avvocato che, in vista di un possibile accordo transattivi, prometta ad un collega di rinunciare ad un decreto ingiuntivo ottenuto per un cliente, inducendolo a non proporre opposizione e invece, una volta divenuto esecutivo il provvedimento, proceda all’esecuzione, viene meno al dovere di comportarsi con lealtà e probità nell’esercizio dell’attività professionale, in particolare nei rapporti con i colleghi. Deve ritenersi contrastante con le più elementari regole deontologiche il non rispettare la parola data e gli impegni presi in ordine alla conduzione di operazioni per le quali l’avvocato presti il proprio ministero.
LA CORTE DI CASSAZIONE HA IL DOVERE DI FEDELTÀ AI PROPRI PRECEDENTI
Perché deve assicurare l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale (Cassazione Sezione Lavoro n. 16152 del 21 dicembre 2001, Pres. Ianniruberto, Rel. Figurelli).
In base all’ordinamento giudiziario la Cassazione ha il dovere di assicurare l’esatta osservanza, l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale. Ciò comporta per la Corte il dovere di fedeltà ai propri precedenti, dai quali essa può discostarsi solo quando le parti ricorrano ad argomenti nuovi (che cioè non siano stati già disattesi in precedenti sentenze) ovvero prospettino situazioni di particolare gravità.
IL GIUDICE DEVE LIQUIDARE GLI ONORARI DI AVVOCATO TENENDO CONTO DELLA SOMMA ATTRIBUITA ALLA PARTE VITTORIOSA E NON DI QUELLA DA ESSA DOMANDATA
Si applicano le tariffe vigenti al momento della decisione (Cassazione Sezione Terza Civile n. 738 del 23 gennaio 2002, Pres. Giustiniani, Rel. Segreto).
I crediti dei professionisti forensi per le prestazioni eseguite a favore di propri clienti vanno liquidati dal giudice, per quanto concerne i diritti di procuratore, in base alle tariffe vigenti all’epoca delle singole prestazioni e quanto agli onorari di avvocato in base alle tariffe vigenti al momento conclusivo dell’opera professionale, stante il carattere concettualmente unitario della stessa. Inoltre, nei giudizi aventi ad oggetto il pagamento di somma di denaro, in caso di accoglimento parziale della domanda, il valore della causa, ai fini della liquidazione degli onorari difensivi, deve essere determinato a norma del codice civile, avendosi riguardo alla somma attribuita alla parte vittoriosa e non alla somma da questa domandata. Ai fini della determinazione del valore della causa, deve tenersi conto anche degli interessi e della rivalutazione monetaria maturati prima della notifica dell’atto introduttivo del giudizio.
UN MAGISTRATO NON PUO’ COMMENTARE UNA SENTENZA IN TERMINI OFFENSIVI PER I COLLEGHI CHE L’HANNO PRONUNCIATA
Con dichiarazioni alla stampa (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 800 del 24 gennaio 2002 Pres. Vessia, Rel. Paolini).
Il magistrato Cristoforo B., pubblico ministero in un processo per omicidio davanti alla Corte di Assise di Appello di L’Aquila, ha reagito alla sentenza di assoluzione dell’imputato con dichiarazioni fortemente critiche rilasciate ai giornali quali: “Una sentenza fuori dalla realtà” (Il Tempo, Il Centro, Il Messaggero); “Come cittadino posso dire di essere esterrefatto, portato a chiedere chi ha sbagliato? Come P.M. che ha partecipato in aula ad un dibattimento che è stato acceso e penetrante posso solo riportarmi ad una frase che spesso diceva mia madre: Al peggio non c’è mai fine.” (Il Tempo); “Di che cosa hanno bisogno i giudici per condannare, della flagranza o della confessione?” (Il Centro); “A questo punto viene in ballo la capacità giuridica di tutti … se non parlare di una prevenzione; spiegatemi come è possibile racchiudere in due ore di Camera di Consiglio un processo tanto intenso, per analizzare tutti gli aspetti, dalle testimonianze, ai rilievi, alle perizie … mi chiedo: quale convincimento ha tratto il consigliere relatore. E’ stato lui ad influenzare i giudici popolari …” (Il Messaggero); “In due ore i giudici togati e popolari hanno deciso su una vicenda complessa, evidentemente è stato fatto un freddo esame degli atti, il relatore ha creato un convincimento che in 120 minuti non poteva essere sovvertito” (Il Centro).
Egli è stato sottoposto a procedimento disciplinare con l’addebito di avere gravemente mancato ai doveri di correttezza e riservatezza abbandonandosi a pesanti giudizi sulla professionalità dei colleghi e rendendosi immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere un magistrato. La sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura gli ha inflitto la sanzione dell’ammonimento. Il magistrato ha proposto ricorso per la cassazione di questa decisione, sostenendo, tra l’altro, che avrebbe dovuto essergli riconosciuto il diritto di esprimere liberamente la sua opinione.
La Suprema Corte (Sezioni Unite Civili n. 800 del 24 gennaio 2002 Pres. Vessia, Rel. Paolini) ha rigettato il ricorso osservando che al magistrato non è stato fatto carico di aver manifestato il proprio dissenso rispetto ad una sentenza, ma di avere criticato la decisione e i giudici che l’avevano resa in termini offensivi e tali da superare il limite della correttezza e della legittimità.
L’AVVOCATO NON PUO’ TRATTENERE LE SOMME RISCOSSE PER CONTO DEL CLIENTE NE’ RICORRERE AD UNA COMPENSAZIONE CON I PROPRI ONORARI
Comportamento vietato dal codice deontologico (Cassazione Sezioni Unite Civili n. 1149 del 29 gennaio 2002, Pres. Amirante, Rel. Preden).
L’avvocato Giorgio C. è stato sottoposto a procedimento disciplinare dal Consiglio dell’Ordine di Roma con l’addebito di avere trattenuto per circa due anni una somma da lui riscossa per conto di un cliente e di avere, quando era stato sollecitato a versarla, emesso una fattura di importo corrispondente per prestazioni professionali, facendo valere il suo credito in compensazione. Il Consiglio ha accertato il fatto ed ha applicato la sanzione della sospensione, rilevando che, ai sensi degli artt. 41 e 44 del codice deontologico, commette infrazione disciplinare l’avvocato che trattenga oltre il tempo strettamente necessario le somme ricevute per conto del cliente, ovvero compensi somme ricevute in deposito con proprie pretese senza il consenso del cliente. Questa decisione è stata confermata dal Consiglio Nazionale Forense. Il professionista ha proposto ricorso davanti alle Sezioni Unite Civili della Suprema Corte per difetto di motivazione e violazione di legge.
La Corte (Sezioni Unite Civili n. 1149 del 29 gennaio 2002, Pres. Amirante, Rel. Preden) ha rigettato il ricorso, in quanto ha ritenuto che il Consiglio Nazionale abbia adeguatamente motivato la sua decisione, accertando la mancanza di autorizzazione del cliente a trattenere le somme incassate.
Le decisioni del Consiglio nazionale forense, ricorribili per cassazione per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge – ha rilevato la Corte – sono suscettibili di sindacato in base all’art. 111 Cost. soltanto in quanto la motivazione manchi affatto o non si presenti logicamente ricostruibile o sia priva di congruenza logica rispetto ai fatti accertati dal giudice, quali risultano dalla decisione impugnata.
I RITARDI DELLE POSTE POSSONO LEDERE IL DIRITTO DI DIFESA
Questione di legittimità costituzionale delle norme in materia di notifica a mezzo posta (Cassazione Sezione Prima Civile, ordinanza n. 1390 del 2 febbraio 2002, Pres. Losavio, Rel. Adamo).
Giovanbattista R. ha proposto ricorso per cassazione contro una sentenza della Corte d’Appello di L’Aquila relativa ad una controversia con l’Enel in materia di indennità di asservimento di un fondo. Il suo avvocato ha consegnato il ricorso all’ufficiale giudiziario, per la notifica a mezzo posta, il 17 novembre 1997, ossia sette giorni prima della scadenza del termine annuale per l’impugnazione (24 novembre 1997). A causa del disservizio postale, l’atto è pervenuto al destinatario soltanto il 29 novembre 1997. La direzione delle Poste e Telegrafi di L’Aquila ha addotto a giustificazione del ritardo l’ingente mole di lavoro. Nel giudizio davanti alla Suprema Corte, l’Enel ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità del ricorso perché notificato fuori termine.
La Suprema Corte (Sezione Prima Civile, ordinanza n. 1390 del 2 febbraio 2002, Pres. Losavio, Rel. Adamo), ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 comma 3 della legge 20 novembre 1982 n. 890, richiamato implicitamente dall’art. 149 cod. proc. civ., nella parte in cui stabilisce che la notifica si ritiene eseguita nel giorno in cui il plico viene consegnato al destinatario e non nel giorno in cui esso viene spedito. La Suprema Corte ha rilevato che per i ricorsi amministrativi e per quelli in materia tributaria la notifica si perfeziona con la spedizione dell’atto risultante da attestazione del servizio postale. La normativa in materia di impugnazioni civili si pone in contrasto con gli articoli 3 (principio di eguaglianza) e 24 (diritto di difesa) della Costituzione – ha osservato la Corte – in quanto prevede una regolamentazione diversa da quella stabilita per i ricorsi amministrativi e per il contenzioso tributario e addossa alla parte notificante, ogni rischio connesso alla omessa o tardiva consegna dell’atto al destinatario, causata da disservizi non imputabili al notificante, potendo così determinare, di fatto, ostacolo al libero esercizio della facoltà di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti.
D’altra parte – ha aggiunto la Corte – non può ritenersi che una diversa regolamentazione della notificazione in questione possa incidere sui diritti del soggetto destinatario dell’atto, sia perché non corrisponde ai principi di buona amministrazione che un soggetto possa avvantaggiarsi dei disservizi dell’Amministrazione stessa, sia perché il destinatario dell’atto è comunque posto in condizione di difendersi perché l’atto deve essergli notificato e dalla data della notifica decorrono gli adempimenti che la legge pone a suo carico, mentre muta solo la data alla quale fare riferimento ai fini della tempestività della notifica.
E’ INCOSTITUZIONALE L’AUTOMATICA APPLICAZIONE DI UNA SANZIONE PECUNIARIA IN CASO DI RIGETTO DELLA ISTANZA DI RICUSAZIONE DEL GIUDICE
Per contrasto con gli articoli 3 e 24 della Costituzione (Corte Costituzionale n. 78 del 21 marzo 2002, Pres. Ruperto, Red. Onida).
Il Giudice civile può essere ricusato dalla parte nei casi previsti dall’art. 51 cod. proc. civ. (interesse nella causa, legame di parentela, grave inimicizia etc.). L’art. 54 cod. proc. civ. prevede che, in caso di accoglimento del ricorso, sia designato il giudice che deve sostituire quello ricusato e che in caso di mancato accoglimento, l’ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione “condanna la parte o il difensore che l’ha proposta, ad una pena pecuniaria non superiore a lire ventimila”. Quest’ultima disposizione (art. 54, terzo comma cod. proc. civ.) è in contrasto con l’art. 24 Cost. Rep., che garantisce il diritto di agire in giudizio. Infatti essa pone per il Giudice l’obbligo di applicare la sanzione pecuniaria. Tale rigido automatismo sanzionatorio non consente di derogarvi nemmeno nel caso – che non si può a priori escludere – in cui la ragione della inammissibilità o della infondatezza della ricusazione non fosse percepibile dal ricusante all’atto della presentazione del ricorso.
L’accedere della condanna sempre e necessariamente alla reiezione del ricorso, indipendentemente dalle circostanze del caso concreto, apprezzabili dal giudice, comporta un’irragionevole compressione di tale diritto, in contrasto con il principio di eguaglianza. Si viene infatti a trattare allo stesso modo, sotto il profilo dell’applicazione della sanzione, la posizione di chi ha proposto la ricusazione ragionevolmente fidando nella sua ammissibilità e nella sussistenza delle ragioni su cui essa si fondava, e quella del ricorrente che non versi in tale situazione. Sono dunque violati gli articoli 3 e 24 della Costituzione.
L’eliminazione dell’automatismo comporta l’attribuzione al decidente del potere di apprezzare, nel caso concreto, se sussistano le condizioni per escludere la condanna alla pena pecuniaria, o se invece la stessa debba trovare applicazione: e dunque alla necessità della condanna, attualmente prevista, si deve sostituire il potere del giudice di applicarla, apprezzando le eventuali circostanze del caso concreto che la rendano ingiustificata. Deve pertanto dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 54, terzo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede che l’ordinanza, che dichiara inammissibile o rigetta la ricusazione, “condanna” la parte o il difensore che l’ha proposta ad una pena pecuniaria, anziché prevedere che “può condannare” la parte o il difensore medesimi ad una pena pecuniaria.
L’IMPARZIALITA’ DEL GIUDICE NON È SOLTANTO UN’ESIGENZA CONNESSA ALLA CORRETTA AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA, MA FORMA OGGETTO DI UN DIRITTO DEL CITTADINO
In virtù dell’art. 111 della Costituzione e dell’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo (Cassazione Sezione Prima Civile n. 4297 del 26 marzo 2002, Pres. Saggio, Rel. Salvago).
Il nuovo testo dell’art. 111 della Costituzione stabilisce che la giurisdizione si attua mediante il giusto processo che deve svolgersi “davanti ad un giudice terzo ed imparziale”.
In tal modo, è stato sancito in modo solenne il principio dell’imparzialità del giudice che, pur essendo sotteso alla disciplina sull’ordinamento giudiziario introdotta dal r.d. 142 del 1941, non aveva trovato espressa menzione neppure nelle tante modifiche ed integrazioni ad esso successive. Ed è stato adeguato il vigente sistema processuale al fondamentale precetto dell’art. 6 della Convenzione per la Salvaguardia dei diritti dell’uomo firmata a Roma il 14 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con legge 848 del 1955, secondo cui “Ogni persona ha diritto che la sua causa sia esaminata giustamente, pubblicamente e in un tempo ragionevole, da un Tribunale indipendente ed imparziale, istituito per legge, che deciderà sia sulle contestazioni dei suoi diritti, ed obblighi di carattere civile, sia sul fondamento di ogni accusa in materia penale elevata contro di lei”.
In seguito al nuovo contesto normativo non è più sostenibile che l’esigenza di far decidere la controversia da un giudice imparziale costituisca soltanto una questione amministrativa relativa all’organizzazione degli uffici giudiziari, in quanto la menzionata convenzione internazionale l’ha espressamente definita un diritto soggettivo della parte, sicché, dato il rango della fonte da cui l’attribuzione proviene, non può dubitarsi che detta aspirazione rappresenti ormai un diritto soggettivo della persona non solo pieno ed assoluto, ma anche fondamentale ed insopprimibile (neppure dal legislatore ordinario) avente ad oggetto l’imparzialità del giudice nell’amministrazione della giustizia, perché riconosciuto dalla Costituzione e dalla ricordata Convenzione internazionale.