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Assegno divorzile: sì anche in caso di nuova convivenza dell’ex coniuge

L’ex coniuge che beneficia dell’assegno che ha una nuova convivenza, stabile e continua, può mantenere la titolarità del mantenimento: lo hanno detto le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ribaltando un orientamento che ormai da anni era diventato granitico in materia.

Sebbene non ci sia una disposizione di legge che regolamenta questa situazione, si era soliti considerare l’inizio di una nuova convivenza dell’ex coniuge beneficiario come motivo per interrompere il pagamento dell’assegno divorzile.

La legge n.898/1970, infatti, prevede la celebrazione delle nuove nozze del beneficiario come unica causa espressa di cessazione del diritto a percepire l’assegno divorzile. Partendo da questo dato normativo giudici e avvocati, concordi con l’interpretazione maggioritaria della Corte di Cassazione, hanno ritenuto di poter estendere analogicamente questa prassi anche in caso di nuova convivenza.

Cambio di rotta delle Sezioni Unite in tema di assegno divorzile e nuova convivenza

Con una sentenza innovativa le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno, per certi versi, ribaltato l’impostazione seguita fino a questo punto dagli addetti ai lavori partendo dalla concezione retributivo-compensativa dell’assegno divorzile che è stata introdotta da un’altra celebre sentenza delle Sezioni Unite del 2018 incentrata sulla natura del contributo economico per l’ex coniuge.

Secondo la Cassazione del 2018, la funzione dell’assegno divorzile è anche quella di ristorare l’ex coniuge per il contributo e i sacrifici fatti nell’interesse della famiglia e dell’altro coniuge. Partendo da tale presupposto il diritto a questa “compensazione” non può escludersi per intero e in automatico qualora il beneficiario inizi una stabile convivenza, nonostante si riconosca al diudice la possibilità di una modulare l’importo mensile.

Iniziare un nuovo percorso di vita con un altro compagno, quindi, potrebbe provocare la perdita della parte assistenziale dell’assegno divorzile ma non della componente compensativa che verrà riparametrata dal giudice tenendo conto di vari criteri, tra cui:

  • la durata del matrimonio;

  • la prova dell’apporto del beneficiario al patrimonio familiare;

  • le eventuali vicende economiche che hanno contraddistinto la vita familiare e del beneficiario (ad esempio rinunce lavorative o di crescita professionale);

  • l’assenza attuale di adeguati mezzi di mantenimento autonomo e l’impossibilità oggettiva di procurarseli.

Spiccata differenza tra convivenza e matrimonio sulle sorti dell’assegno divorzile

La circostanza che balza agli occhi con estrema evidenza, dopo la lettura della sentenza delle Sezioni Unite, è la decisione di escludere in maniera inequivocabile le convivenze more uxorio dall’applicazione dell’art. 5, comma 10 della legge sul divorzio, ossia la disposizione che fa cessare il diritto a percepire l’assegno mensile in caso di nuove nozze.

La differenza tra matrimonio e convivenza viene, quindi, ancora una volta enfatizzata dalla Corte di Cassazione non senza un certo disagio e incertezza per gli operatori professionali e per le parti che si trovano a gestire una crisi familiare. Il diverso trattamento che viene riservato a convivenza e matrimonio, infatti, sembra apparire un po’ anacronistico rispetto alla situazione sociale degli ultimi anni dove stiamo vedendo una proliferazione delle convivenze a discapito della celebrazione di unioni matrimoniali.

Se, infatti, sotto molteplici aspetti è giuridicamente corretto lasciare una differenziazione netta tra l’istituzione del matrimonio e la convivenza more uxorio, per quanto riguarda il concetto che sostiene la ratio dell’assegno divorzile la convivenza e matrimonio sono modelli familiari dai quali scaturiscono obblighi di solidarietà morale e materiale che giustificherebbero l’estinzione dell’assegno divorzile, tanto nel caso di nuove nozze che nel caso di convivenza more uxorio.

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Separazione e divorzio, novità nella riforma del processo civile

Le novità da tempo annunciate sulla separazione e sul divorzio sono diventate realtà con la riforma Cartabia, entrata definitivamente in vigore sia per il rito dei procedimenti di famiglia che, più in generale, per tutto il rito del processo Civile.

La riforma ha prima di tutto raccolto le richieste che da svariati anni provenivano dagli addetti ai lavori che gestiscono in prima persona le crisi familiari soprattutto ai fini della nascita di un unico Tribunale per la famiglia e i minori, il quale lavorerà sulla base di un unico rito uniformato, uguale per tutti i giudizi.

Mentre il nuovo rito dei procedimenti di separazione, divorzio e, più in generale, di tutte le cause relative a questioni familiari è già entrato in vigore, il Tribunale della Famiglia dovrebbe fare il suo ingresso definitivo entro la fine del prossimo anno.

Diritto di famiglia: quali novità sono introdotte dalla riforma

Nell’ambito del Diritto di famiglia le novità più importanti sono:

  • la nascita di un unico Tribunale per le persone, per i minori e per la famiglia che accorpa il Tribunale per i minorenni e prevede l’assegnazione di magistrati esperti nelle materie trattate;

  • più velocità per ottenere la separazione e il divorzio che si possono chiedere insieme, con un unico atto, con l’assistenza di un avvocato, preferibilmente un avvocato divorzista. Non c’è più bisogno di fare prima un ricorso per chiedere la separazione, e poi un secondo ricorso separato per domandare il divorzio: ora si possono chiedere contestualmente. Per avere direttamente il divorzio immediato basterà fare una domanda cumulativa.

    Non è stato introdotto il “divorzio senza separazione” quindi la separazione non viene cancellata, però sarà possibile ottenere il divorzio in un tempo più rapido.

  • il potenziamento della negoziazione assistita e della mediazione familiare (incentivi fiscali, trattazione da remoto e allargamento anche ai genitori non coniugati);

  • il miglioramento e l’abbreviazione delle forme di tutela per le donne ed i minori che subiscono violenza con l’obbligo di nomina di un curatore speciale a favore del minore di età (binario preferenziale per ordini di protezione in via d’urgenza, maggiore raccordo tra giudice penale e giudice civile.

Unico processo per la separazione e il divorzio

Per quanto riguarda i procedimenti di separazione e divorzio (ma anche di cause per la regolamentazione della responsabilità genitoriale in caso di coppia non sposata) uno degli scopi della riforma è quello di rendere il processo molto più veloce e snello. Il Legislatore ha pensato di evitare la doppia fase, presidenziale e istruttoria, affidando l’intera causa ad un unico giudice istruttore, delegato dal Collegio, che possa avere maggiore conoscenza della pratica e decidere più in fretta, soprattutto nell’interesse dei minori.

Per chiedere il divorzio contestualmente alla domanda di separazione è necessario che l’avvocato inserisca subito in un unico atto tutte le domande relative alla separazione personale ed al successivo divorzio, il quale potrà essere pronunciato e trattato dallo stesso Giudice.

Il divorzio si otterrà quando:

1) ci sarà stata la separazione: basta anche semplicemente la sentenza “parziale” di separazione che viene emessa già dopo la prima udienza, senza dover attendere la conclusione della causa

2) saranno trascorsi 6 o 12 mesi a seconda che la separazione sia stata pronunciata a seguito di un giudizio consensuale o giudiziale. Durante questo periodo ovviamente i coniugi non si devono essere riconciliati.

Una sola udienza dopo 90 giorni con tutte le prove e documenti

Chi introduce la causa riceve entro 3 giorni un decreto con il quale il Tribunale fissa la prima udienza alla quale le parti devono presenziare di persona con i loro Avvocati. L’udienza è fissata in tempi brevi, ossia entro 90 giorni dal deposito del ricorso. Nello stesso decreto il Tribunale nomina il Giudice istruttore delegato dal Collegio alla trattazione della causa.

Il giudice istruttore concede un termine per procedere alla notifica da parte del ricorrente del ricorso e del decreto di fissazione di udienza al coniuge convenuto. Entrambe le parti avranno poi la possibilità – prima dell’udienza – di depositare ulteriori atti per precisare le domande e le richieste di prove. Quindi prima della prima udienza le parti potranno depositare ulteriori documenti e prove, così da dare al Giudice istruttore un quadro completo.

All’udienza il Giudice:

1) deve assumere i provvedimenti provvisori ed urgenti (affidamento dei figli, collocazione dei figli minori, assegnazione della casa coniugale, tempi e modalità di permanenza dei figli presso l’altro genitore non collocatario, assegno mensile per i figli, eventuale assegno di mantenimento del coniuge ecc.) che saranno esecutivi durante lo svolgimento della causa e potranno essere modificabili, revocabili in qualsiasi momento o, in talune circostanze appellabili;

2) deve decidere sull’ammissione dell istanze istruttorie: quindi valuta le prove, e valuterà, ad esempio se ascoltare, o meno, i testimoni, se far fare ad uno psicologo di sua fiducia (Consulente Tecnico d’Ufficio c.d. CTU) una consulenza per comprendere quale sia il genitore più idoneo a stare con i figli o potrà decidere di nominare un Consulente per esaminare i redditi/guadagni dei coniugi o che si presume non siano stati dichiarati, potrà decidere se far fare una indagine fiscale alla Polizia tributaria (Guardia di Finanza) ecc..

Nella separazione e divorzio giudiziale i figli – per i provvedimenti che li riguardano – devono sempre ascoltati dal Giudice istruttore quando hanno compiuto 12 anni ma anche di età inferiore quando hanno capacità di discernimento. Il Giudice istruttore li ascolta direttamente (c.d. ascolto diretto), generalmente alla prima udienza, e può farsi assistere da un professionista terzo (psicologo, neuropsichiatra infantile, ecc.) ossia da un esperto o ausiliario (c.d. ascolto assistito). L’ascolto è superfluo in caso di giudizi consensuali mentre è escluso sia se il bambino rifiuta espressamente di farsi ascoltare sia nei casi di evidente nocumento per il minore.

Conseguenze sulla difesa legale in caso di procedimento unico per la separazione e il divorzio

La scelta di “unire” separazione e divorzio in un’unica causa comporta una modifica nella modalità di redazione degli atti oltre che una specifica modulazione della difesa da parte dei legali.

L’atto, infatti, deve contenere la doppia richiesta di separazione e divorzio ma anche una doppia linea difensiva sulle domande economiche (che, tra l’altro, hanno presupposti diversi nelle due fasi) oltre che sulle disposizioni relative ai figli: ciò comporterà una ancora maggiore attenzione sulla scelta dell’Avvocato che dovrà essere un Professionista esperto in materia di diritto di famiglia capace di muoversi al meglio nell’articolata formulazione del ricorso introduttivo fin da subito altrimenti si rischierà di avere le armi spuntate in una causa che chiede alle parti di mettere sul tavolo le carte fin dal primo momento.

Questo permetterà di avere un’unica istruttoria che, quindi, garantirà una gestione dell’intero processo in minor tempo rispetto alla precedente necessità di attendere due giudizi (con relativi eventuali appelli!) per la definizione della questione familiare.

Complessa sarà l’interconnessione delle sentenze: la pronuncia finale, infatti, prevede condizioni temporali specifiche sulla decorrenza del successivo divorzio rispetto alla separazione e delle relative condizioni. Anche i Giudici, quindi, devono prestare maggiore attenzione a questi raccordi.

Questa strada sembra aprire uno spiraglio verso quello che sarebbe un intervento epocale in materia: ossia il divorzio diretto, senza prima dover passare dalla separazione. Un rito così orientato potrebbe, infatti, aiutare a fare definitiva breccia verso l’apertura del Legislatore a tale prospettiva.

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Nuove prospettive per il DDL Zan: fermento nel mondo LGBTQI+

Il DDL Zan non ha trovato luce dopo il passaggio in Senato, tuttavia, possono esserci nuove prospettive per la sua approvazione seppur in forma modificata. Il mondo LGBTQI+ è giustamente in fermento dopo la grossa delusione degli scorsi mesi.

Cosa prevedeva il DDL Zan

Il DDL Zan, che prende il nome dal deputato del PD Alessandro Zan, relatore del disegno di legge alla Camera, è una proposta di legge che prevedeva la prevenzione ed il contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità“.

In particolar modo il disegno di legge puntava ad includere i concetti di genere e identità di genere e orientamento sessuale nell’impianto normativo, già presente nell’ordinamento italiano, che tutela le discriminazioni, l’odio o la violenza per motivi razziali, etnici, nazionali, religiosi (c.d. Legge Mancino-Reale del 1993).

La legge Mancino-Reale, infatti, già prevede la punizione per atti commessi per motivi a sfondo razziale, etnico o religioso e, pertanto, i relatori della proposta di legge hanno optato per estendere all’elenco dei reati già puniti dalla legge Mancino-Reale anche le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere della vittima.

La proposta di legge chiedeva, quindi, una modifica degli artt. 604bis e 604ter c.p. estendendo la pena della reclusione (da 1 a 4 anni a seconda delle casistiche) e di una multa in caso di commissione di atti violenti o discriminatori (anche nella forma dell’istigazione) per motivi legati all’orientamento sessuale e/o di genere. Sarebbe stato introdotto, inoltre, il divieto di associazionismo basato sull’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi di genere.

Critiche al DDL Zan e posizione del Vaticano

Le maggiori critiche che sono state espresse nei confronti del DDL Zan, in maggioranza provenienti da alcune parti del centro destra, rilevavano una non necessarietà della specificazione prevista della proposta di legge, essendo le condotte punite riconducibili a quelle punite dalla Legge Mancino-Reale.

Altri esponenti politici e di varie associazioni cattoliche hanno avanzato il dubbio che il DDL Zan castrasse la libertà di espressione in particolar modo della Chiesa Cattolica con una violazione dei principi che regolano il Concordato in vigore tra Vaticano e Stato italiano. In particolare, ci sarebbero passi delle Sacre Scritture e delle tradizioni ecclesiastiche che considerano la differenza sessuale, secondo una prospettiva antropologica derivata dalla stessa Rivelazione divina, indisponibile e immodificabile secondo la Chiesa.

I sostenitori della proposta di legge hanno spedito al mittente tali sospetti, in primo luogo lamentando un’illegittima ingerenza della Santa Sede nello Stato italiano fino a violarne la sua laicità e, in secondo luogo, ritenendo non veritieri i rischi di limitazione del libero pensiero e della libertà religiosa.

Speranze future per il DDL Zan

Il dibattito ideologico tra le due fazioni è destinato a non sopirsi perché i pensieri dei due fronti sono parsi troppo distanti per conciliarsi.

In ogni caso il mondo LGBTQI+, sostenuto dalla maggior parte dell’opinione pubblica oltre che da numerosi personaggi noti dello sport, dello spettacolo e della cultura, intravede ulteriori speranze per l’approvazione del DDL Zan, seppur in forma modificata.

Il DDL Zan, infatti, non è sparito: la proposta di legge ad Aprile 2022 ritornarà in Commissione Giustizia e potrà essere ridiscusso seppur prevedendo nuove formulazioni che tutelino la libertà di espressione e la libertà religiosa.

Questa prospettiva crea un certo fermento nella comunità LGBTQI+ che spera di poter vincere una battaglia di civiltà. Un’occasione per non sprecare la possibilità di garantire tutela ad una parte della popolazione troppo spesso discriminata per motivi privati e personali.

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Figlio/figlia studente fuori sede e possibile revoca dell’assegnazione della casa familiare

L’assegnazione della casa familiare è uno strumento per tutelare il diritto dei figli a veder protetto il centro dei loro interessi e della loro vita, anche dopo la separazione o il divorzio dei genitori. Se il figlio o la figlia crescono e si allontanano dalla casa per studiare fuori sede, però, le cose possono cambiare.

Per sgombrare il campo da equivoci è bene precisare che non esiste una legge che dispone le casistiche per la revoca dell’assegnazione dell’abitazione familiare al genitore collocatario dei figli dopo la separazione o il divorzio. Finché il figlio o la figlia convivono a tutti gli effetti con il genitore assegnatario non ci sono tendenzialmente i presupposti per ordinare una modifica del provvedimento sulla casa.

L’effettiva permanenza del figlio o della figlia nella casa familiare

Cosa succede, quindi, quando il figlio/la figlia diventa maggiorenne e decide di andare a studiare o lavorare in un’altra città? Dato che la legge nulla dice in merito, le soluzioni variano caso per caso in base alle effettive esigenze dei figli.

La Corte di Cassazione, in particolare, è orientata su un’interpretazione che porta alla possibile revoca dell’assegnazione se il figlio/la figlia, che studia o lavora fuori, torni saltuariamente a casa, ad esempio solo per qualche fine settimana, per le feste comandate o in occasioni particolari.

L’assegnazione della casa coniugale, come detto, viene disposta solo in favore del figlio/figlia e non dovrebbe essere considerata come sostegno al reddito del genitore con cui questi convive. Per questo motivo appena viene meno la coabitazione tra i figli ed il genitore collocatario nella casa familiare, l’immobile potrebbe tornare al legittimo proprietario.

Quando il figlio/la figlia lavora o studia fuori sede il Giudice incaricato di disporre l’eventuale revoca dell’assegnazione deve procedere con una disamina dell’effettiva coabitazione che si realizza, secondo la giurisprudenza, nel caso in cui torni abitualmente a casa qualora gli impegni scolastici o lavorativi glielo consentano.

Nel caso in cui il figlio/la figlia non fa ritorno nella città d’origine, probabilmente, è perché sta mettendo radici in un’altra città e il suo centro d’interessi si è modificato. Quando il figlio/la figlia, quindi, nonostante potrebbe tornare a casa decide di non farlo (o non può farlo per motivi oggettivi) è legittimo ritenere che la convivenza con il genitore assegnatario sia finita.

La presenza del figlio/della figlia nella casa familiare deve essere quotidiana?

La risposta alla domanda è no. Non si ritiene rilevante la mancanza di una convivenza quotidiana, ciò che i Giudici valutano è lo stabile collegamento tra la prole e l’abitazione ove vive ancora il genitore assegnatario.

L’assenza del figlio/della figlia dall’abitazione familiare per periodi regolari, più o meno brevi, non comporta la fine della convivenza purché vi faccia ritorno non appena possibile e non abbia un nuovo effettivo centro di interessi da un’altra parte (ad esempio un’altra casa nella quale convive con un partner).

Cosa fare se il figlio/figlia si è “di fatto” trasferito dalla casa familiare

Quando si verifica l’effettivo allontanamento del figlio/della figlia dalla casa familiare, il proprietario dell’immobile può agire in giudizio per chiedere la revoca dell’assegnazione all’altro genitore, con un ricorso per la modifica delle condizioni di separazione, divorzio o regolamentazione della responsabilità genitoriale con l’assistenza di un Avvocato.

Nel momento in cui verrà provata la sostanziale fine della convivenza tra i figli ed il genitoreassegnatario, il provvedimento di assegnazione della casa familiare viene – con elevata probabilità – revocato.

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Convivenza con partner straniero: si al permesso di soggiorno

Quando il partner straniero non ha il permesso di soggiorno può sembrare difficile iniziare una convivenza regolare in Italia. In realtà sia la legge che le ultime sentenze sembrano facilitare una soluzione positiva per molte coppie che si trovano in questa situazione.

Il primo strumento che viene in aiuto delle coppie miste è La legge Cirinnà (Legge n. 76/2016) che ha riconosciuto le convivenze di fatto – sia omosessuali che eterosessuali – tra due persone maggiorenni (non sposate né parenti tra loro) che hanno un legame di coppia caratterizzato da assistenza morale e materiale.

Riconoscimento della convivenza di fatto con partner straniero con intervento dell’Avvocato

Per poter ottenere il permesso di soggiorno del partner straniero, la convivenza di fatto deve essere riconosciuta e formalizzata stipulando un contratto di convivenza sottoscritto e autenticato, ad esempio, dinanzi ad un Avvocato.

La redazione del contratto di convivenza autenticato è lo strumento che permette alla coppia mista di provare l’esistenza una relazione stabile tra il cittadino italiano e lo straniero e, quindi, di poter applicare la direttiva 2004/38/CE (recepita in Italia dal d.lgs. n. 30/2007). Questa direttiva conferisce ai cittadini dell’Unione Europea, e ai loro familiari, il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, agevolando l’ingresso ed il soggiorno anche al partner.

Sulla base di queste disposizioni di legge la compagna o il partner extracomunitario deve poter essere iscritto all’anagrafe di qualunque comune italiano, necessaria per ottenere il permetto di soggiorno.

Cosa fare se il comune rifiuta l’iscrizione all’anagrafe

In alcuni casi si sono verificati dei rifiuti di registrazione anagrafica da parte dei comuni. Svariati Tribunali italiani hanno, però, dichiarato l’illegittimità di questi dinieghi ed hanno affermato il diritto all’ingresso in Italia ed al ricongiungimento per quegli stranieri che hanno un partner italiano, se intrattengono con questo una relazione stabile debitamente attestata da documentazione ufficiale, anche se non registrata (segnaliamo tra i provvedimento più interessanti: quello del Tribunale di Bologna con ordinanza n. 21280/2020; del Tribunale di Modena con ordinanza n. 370/2020; del Tribunale di Milano, con ordinanza del 24 aprile 2021).

I Giudici hanno rilevato che per ottenere il riconoscimento delle convivenze, la coppia deve solo provare

  • di avere sufficienti risorse economiche;
  • l’esistenza di idonea soluzione abitativa nel comune;
  • un contratto di convivenza sottoscritto davanti un avvocato in qualità di pubblico ufficiale.

In questi casi il comune deve concedere la registrazione anagrafica dello straniero, con la quale sarà possibile avere il permesso di soggiorno. In caso contrario la coppia potrà ricorrere all’Autorità giudiziaria contro il rifiuto del comune per ottenere un ordine di trascrizione da parte del Giudice e, successivamente, recarsi in Questura per le pratiche relative al permesso di soggiorno.

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Coppie di fatto e convivenze non registrate: nessuna eredità “per legge”

Tra le coppie di fatto che vivono in convivenze non registrate non alcun diritto all’eredità dell’altro “per legge” cioè in automatico come tra moglie e marito. Questo significa che se uno dei conviventi muore senza lasciare testamento, l’altra persona non potrà ereditare nulla.

Neppure la Legge Cirinnà, che ha introdotto la regolamentazione delle unioni civili per coppie omosessuali, ha disciplinato una garanzia in tal senso per le coppie di fatto dato che ben differenzia i diritti delle coppie che possono accedere alle unioni civili, esclusivamente omosessuali, da quelli per le coppie di fatto siano esse eterosessuali e non.

Quando e come i conviventi possono diventare eredi

 

Come accennato alle coppie di fatto, ossia quelle coppie formate da due persone che coabitano unite da un legame affettivo, non è riconosciuto alcun diritto in ambito successorio, pertanto, alla morte del partner al superstite non spetta nessun diritto in mancanza di un testamento.

Questo non significa che chi rimane in vita non possa in assoluto diventare erede del compagno o della compagna: se questi decide di fare testamento, infatti, può scegliere di destinare qualsiasi bene all’altro,ma tale disposizione sarà valida solo nel rispetto dei limiti di quota riservati ad eventuali legittimari(coniugi, figli o ascendenti).

Esistono, infatti, dei diritti successori inviolabili destinati ai parenti più stretti i quali devono ricevere in eredità almeno una quota di patrimonio prefissata dalla legge e, in caso contrario, possono rivolgersi al Giudice per ottenere la restituzione del bene finito in eredità a qualcun altro oppure dell’equivalente in denaro per risanare la propria quota di legittima (c.d. azione di reintegra).

Pensiamo, ad esempio, ad un convivente che muore lasciando in vita la partner e la madre. Quest’ultima in qualità di ascendente della persona deceduta ha diritto ad avere almeno 1/3 del patrimonio del figlio. Se lui muore lasciando in eredità alla compagna una grossa somma di denaro oltre che l’unica casa di proprietà, la madre potrebbe opporsi a questo lascito testamentario se l’importo in denaro destinato alla compagna sommato alla casa avessero un valore superiore ai 2/3 del patrimonio del defunto. In questo caso gli eredi dovrebbero far valutare l’immobile e la compagna dovrebbe, eventualmente, liquidare la madre o con una parte del denaro ereditato o con una quota della casa e ciò fino alla concorrenza del controvalore di 1/3 del patrimonio del defunto.

Rilevanze giuridiche della morte del compagno

Per la legge le disposizioni testamentarie tra i conviventi del genere sono definite “liberalità tra estranei” e non godono neppure dei benefici fiscali dei lasciti destinati al coniuge dato che sarebbe sottoposta all’aliquota dell’8% a titolo di imposta di successione.

Gli unici diritti previsti attualmente dall’Ordinamento italiano dopo la Legge Cirinnà in caso di morte di un convivente sono: l’opportunità di rimanere nella casa abitata dalla coppia, di proprietà del defunto, per un tempo massimo di 5 anni dal decesso, la facoltà di succedere nel contratto di locazione intestato al compagno e la possibilità di ricevere il risarcimento del danno in caso di morte del compagno per fatto illecito.

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Comunione legale dei coniugi: gestione di ordinaria e straordinaria amministrazione dei beni familiari

In regime di comunione legale tutte le entrate e gli acquisti dei singoli coniugi, tranne alcune eccezioni, devono essere considerate di proprietà di entrambi, in ogni caso la possibilità di gestione autonoma varia a seconda che siano atti di ordinaria o straordinaria amministrazione.

Comunione immediata e comunione residuale: differenze per la gestione dei beni

Come noto quando due coniugi sono in comunione dei beni alcune proprietà fanno parte della comunione immediata e possono essere considerati sin da subito di entrambi i coniugi, mentre altri beni possono essere considerati tali solo allo scioglimento del matrimonio e fanno parte della comunione residuale.

 

La porzione di patrimonio che compone la c.d. comunione residuale è composta da beni che devono essere gestiti dal coniuge che ne è proprietario esclusivo sino allo scioglimento della comunione.

Tutto quanto fa parte della comunione immediata, invece, va gestito da entrambi i coniugi, in maniera diversa a seconda che si tratti di atti ordinaria o straordinaria amministrazione.

Quali sono gli atti di ordinaria amministrazione

Vengono considerati atti di ordinaria amministrazione tutte quelle azioni di normale gestione dei beni familiari già presenti in comunione. In altre parole, sono considerati atti di ordinaria amministrazione tutti quegli atti che hanno lo scopo di conservare o permettere la manutenzione del bene.

Per semplificare, sono considerati di ordinaria amministrazione tutti quegli atti che:

  • sono utili alla conservazione del valore del bene;
  • hanno un valore economico non elevato, soprattutto in relazione al patrimonio familiare;
  • hanno un margine di rischio basso, soprattutto in relazione al patrimonio familiare.

Facendo alcuni esempi, si intendono atti di ordinaria amministrazione il pagamento dei debiti intestati ad entrambi i coniugi o la gestione del conto corrente cointestato ad entrambi i coniugi.

Tutti gli atti di ordinaria amministrazione possono essere compiuti da entrambi i coniugi sia insieme che da soli, senza il consenso dell’altro coniuge.

Quali sono gli atti di straordinaria amministrazione

Vengono considerati atti di straordinaria amministrazione tutti quegli atti che possono diminuire in maniera importante e decisiva il valore o la consistenza del patrimonio familiare. Tutte le azioni che hanno un valore economico elevato o hanno un margine di rischio alto rispetto al patrimonio famigliare sono di straordinaria amministrazione.

In sostanza, intendono di straordinaria amministrazione:

  • la vendita di un appartamento o la locazione di un appartamento appartenente ad entrambi i coniugi;
  • l’acquisto di un grande pacchetto azionario o l’investimento di ingenti capitali di denaro;
  • la vendita di quote societarie o dell’impresa familiare.

Tutti gli atti di straordinaria amministrazione devono essere compiuti alla presenza di entrambi i coniugi. Nel caso in cui uno dei coniugi non partecipi all’atto di straordinaria amministrazione deve comunque rilasciare alla moglie o al marito il suo consenso per compiere l’atto.

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Cosa succede alla donazione al coniuge o al partner unito civilmente in caso di successione

In una coppia di partner, conviventi o coniugi è molto frequente fare o ricevere regali. Ma se i trasferimenti riguardano beni di valore elevato si realizza una donazione, una figura giuridica che è regolamentata in modo specifico dalla legge e soprattutto in caso di successione per morte del partner/del convivente/ della moglie/ del marito.

Pensiamo, ad esempio, alla cessione gratuita un immobile da un partner all’altro: talvolta queste decisioni possono avere motivi fiscali; possono sembrare vie d’uscita per sfuggire ai creditori in caso di grossi debiti (intesto la casa a mia moglie così i miei creditori non la possono pignorare) oppure potrebbero essere un modo per togliere dalla futura eredità beni di valore.

Attenzione alla collazione ereditaria

Nell’ultimo caso, ossia quando il partner, il convivente, la moglie o il marito che ha donato il bene muore, potrebbero sorgere alcuni problemi durante la divisione dell’eredità e, più in generale, per la successione. Solo le donazioni di modico valore fatte tra i coniugi o tra due persone unite civilmente, infatti, sono al “sicuro” e non entrano nell’eredità.

In tutti gli altri casi il bene che è stato donato in vita deve essere oggetto della cosiddetta collazione che consiste nel conferimento a tutti i coeredi del bene donato. In pratica chi ha ricevuto la donazione deve “mettere a disposizione” il bene in modo tale che questo rientri nella massa patrimoniale del defunto, così da poter da procedere alla corretta divisione tra tutti gli eredi.

 

La donazione di un determinato bene, infatti, potrebbe aver notevolmente impoverito il patrimonio del caro estinto. Ciò provocherebbe una lesione al diritto degli altri eredi che, in poche parole, dovrebbero dividersi un capitale inferiore. La “restituzione” della donazione permetterebbe di valutare il patrimonio oggetto dell’eredità in modo globale per capire se le quote di ciascun erede sono state rispettate.

L’unico caso in cui si è esonerati da tale obbligo è quando il defunto ha appositamente dispensato il congiunto, rispettando però alcuni limiti.

La legittima e i limiti della dispensa alla collazione

Come noto in Italia, anche se chi muore lascia testamento, esistono delle quote intoccabili (cd. legittime) per alcuni eredi quali il coniuge, i genitori e i figli. Se queste quote calcolate sull’intero patrimonio del defunto non vengono rispettate, l’erede leso nel suo diritto di legittima può e deve ottenere la reintegra della quota.

La parte restante dei beni viene chiamata quota disponibile perché può essere destinata a chiunque da parte di chi fa il testamento.

La dispensa a compiere la collazione dei beni donati è possibile solo entro i limiti della quota disponibile dell’eredità.

Facciamo un esempio per comprendere meglio. La quota di legittima per i genitori in caso di morte di un figlio che non abbia avuto figli ma si sia sposato o unito civilmente è pari ad un quarto del patrimonio del defunto. Quindi se dopo il matrimonio o l’unione civile fosse stata donata una casa al coniuge o al partner unito civilmente questi dovrebbe mettere la casa in collazione a meno che un quarto del patrimonio totale del defunto (al netto dell’appartamento donato) rimanga disponibile per l’eredità dei genitori.

Capiamo molto bene che, come accade spesso, nel caso in cui la casa costituisse gran parte del patrimonio del defunto potrebbero sorgere grossi problemi per il coniuge o il partner superstite. Egli, infatti, sarebbe costretto a cointestare parte della casa agli altri eredi (nel nostro esempio ai genitori del defunto) oppure a dare loro il corrispettivo valore in denaro.

Con l’approvazione della legge sulle Unioni Civili, i diritti di due persone unite civilmente sono stati parificati a quelli di due coniugi anche per quanto riguarda il campo delle donazioni, quindi, come abbiamo visto, è necessario porre la massima attenzione quando si decide di operare trasferimenti a titolo gratuito per non correre il rischio che questi vengano formalmente invalidati dalla collazione.

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Unione civile coppia gay o lesbica: diritti se il partner muore senza fare testamento

Quando il partner in una coppia gay o lesbica muore senza lasciare testamento chi sopravvive può far valere i suoi diritti se era stata celebrata un’unione civile. Fare testamento prima della Legge Cirinnà era di importanza vitale per tutte le coppie di fatto in quanto era l’unico modo legale per assicurarsi che una parte dei propri beni potesse arrivare al partner dopo la morte (nel rispetto delle quote da riservare agli eredi legittimi).

I casi in cui, dopo anni di relazione, conviventi gay o lesbiche si sono trovati sbattuti fuori di casa da “eredi legittimi” del defunto sono migliaia e, purtroppo, tutti di difficilissima – se non impossibile – soluzione giudiziaria. Le coppie omosessuali spesso vivono rapporti di conflittualità con le famiglie d’origine che arrivano addirittura ad ignorare l’esistenza di legami d’amore del proprio congiunto e, al momento della sua scomparsa, approfittano della legge per impedire al partner superstite di attingere all’eredità.

Molte persone, infatti, non pensano a mettere nero su bianco le proprie ultime volontà: chi per scaramanzia, chi per distrazione, chi perché non ne vede l’utilità, chi per paura di deludere familiari o amici o di commettere errori… Grazie alla celebrazione dell’unione civile, però, le coppie omosessuali possono vantare diritti ereditari pari a quelli di moglie e marito.

L’unione civile fa diventare eredi legittimi

 

La celebrazione dell’unione rende le due persone eredi legittimi perché, in materia di successioni, parifica in tutto e per tutto tale patto al matrimonio. Ciò significa che nel caso in cui una parte dell’unione dovesse morire senza lasciare un testamento il partner sarebbe l’erede universale, cioè l’unico ad aver diritto ad ereditare tutto il patrimonio della persona scomparsa.

Quanto spetta al partner se sono presenti altri familiari

L’intero patrimonio è devoluto alla parte unita civilmente al defunto se quest’ultimo non aveva alcun parente prossimo. Nel caso in cui chi muore lascia una famiglia più numerosa le cose cambiano in quanto viene previsto il diritto ad essere eredi anche per gli altri familiari.

In particolare: se la persona scomparsa aveva un figlio, il patrimonio dovrà essere ereditato a metà tra quest’ultimo ed il partner superstite; se aveva più figli un terzo dei beni spetterà al compagno o compagna ed i due terzi verranno destinati ai figli; se, invece, chi muore lascia unicamente i genitori questi erediteranno un terzo degli averi ed i due terzi sarà destinato alla parte unita civilmente.

Come si procede alla divisione del patrimonio in caso di più eredi legittimi

La prima cosa da fare è elencare tutti i beni del defunto così come i debiti o le passività da lui lasciate. In questa fase bisogna considerare anche i beni che chi è scomparso aveva donato in vita, che vanno a far parte della quota destinata all’erede, sempre che non si trattasse di donazioni di modesto valore.

Dopo aver stimato ogni bene e considerato le somme di denaro, si procede dando la parte spettante a ciascun erede in base alle quote previste dalla Legge. Gli eredi possono anche accordarsi durante la divisione per ottenere un bene invece di un altro ove ciò non sia possibile, si procederà con un conguaglio in denaro.

Per quanto riguarda i beni che non si possono dividere, come le case, tutti gli eredi diventeranno proprietari ciascuno per la propria quota oppure si procede alla vendita del bene ed alla successiva suddivisione del ricavato.

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L’assegno di mantenimento del coniuge (moglie marito) separato: requisiti e calcolo | Avvocato

L’assegno di mantenimento del coniuge (moglie marito) separato più debole è una forma di assistenza materiale tra moglie e marito in quanto la separazione non scioglie il matrimonio ma si limita ad attenuarne alcuni effetti. Se il richiedente possiede determinati requisiti, il calcolo dell’assegno viene effettuato sulla base della condizione economica dei coniugi.

Quali sono i requisiti per ottenere l’assegno di mantenimento

Per poter ricevere l’assegno di mantenimento, salvo diversi accordi raggiunti dalla coppia, il coniuge deve svolgere espressa domanda in sede di separazione giudiziale la quale non deve essere addebitabile al richiedente.

Il Giudice deve accertare che il coniuge che chiede l’assegno non abbia redditi propri che gli permettano di mantenere un tenore di vita analogo a quello goduto in costanza di matrimonio o, quantomeno, che non possa procurarseli per ragioni oggettive.

Su questo punto la Corte di Cassazione, con la nota sentenza Berlusconi-Lario, ha precisato che in caso di separazione il criterio del tenore di vita debba essere ancora tenuto in considerazione contrariamente a quanto dovrebbe accadere in sede di divorzio.

In ultimo deve essere riscontrata la disparità economica tra moglie marito ossia deve essere dimostrato che il coniuge richiedente ha un reddito inferiore di quello che dovrebbe versare l’assegno. Questa disamina non deve avere ad oggetto solo i redditi da lavoro ma, più in generale, tutta la consistenza patrimoniale di entrambi (proprietà immobiliari, partecipazioni societarie, azioni, obbligazioni, denaro ecc.). Deve essere tenuto in considerazione anche l’apporto conferito da ciascun coniuge alla vita familiare.

Come si calcola l’assegno di mantenimento

Non esiste una regola matematica da applicare per calcolare l’assegno. La legge stabilisce che solo il Giudice può deciderne l’entità. Esistono, tuttavia, modelli di calcolo ed interpretazioni giurisprudenziali che forniscono direttive da applicare ma il Giudice non è obbligato ad uniformarsi.

Per questo nella fase istruttoria la comparazione dello stato economico globale dei coniugi, che varia da separazione a separazione, è importante essendo l’unico modo per capire se ci sia davvero uno squilibrio tra le capacità delle parti.

La rappresentazione delle situazioni patrimoniali e di tutte le attività economicamente rilevanti della coppia permetteranno al Tribunale di individuare in maniera obiettiva l’ammontare dell’assegno che spetta al coniuge più debole.

Per questo motivo è importante chiedere assistenza legale ad uno Studio che possa non solo consigliare la parte dal punto di vista giuridico ma che possa contare su un team di Professionisti multidisciplinari, che operano su diversi livelli, anche all’estero nel caso in cui sia necessario, al fine di poter avviare indagini approfondite che chiariscano le condizioni economiche di moglie e marito.

Cos’è il tenore di vita potenziale

Il tenore di vita potenziale della coppia corrisponde all’effettiva capacità economica e si valuta in base ai redditi ed alle altre utilità patrimoniali percepite e possedute. Esso può variare da quello reale in quanto marito e moglie, nonostante abbiano una situazione economica agiata, possono decidere di seguire uno stile di vita parco ed orientato al risparmio. In questi casi l’assegno di mantenimento deve essere determinato in base alle effettive condizioni economiche e non allo stile di vita volutamente “contenuto”.

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Mancato allaccio luce al bar: come ottenere il risarcimento dei danni

Il bar che subisce il mancato allaccio della luce ha diritto al risarcimento di tutti i danni subiti a causa del ritardo. La luce infatti è un bene primario e diventa ancor più importante per le attività commerciali. Infatti un bar senza luce non può svolgere la propria attività con la relativa perdita del guadagno giornaliero e la spesa per il personale inutilizzato.

Il danno emergente

 

In caso di mancato allaccio della luce in un bar il danno che potrà essere richiesto al gestore elettrico sarà relativo alla spesa per i dipendenti che non sono stati utilizzati, ma che comunque è stato pagato per i giorni in cui non c’era la luce. Si dovrà, ovviamente, verificare tutte le spese che possono essere risarcite, utilizzando metodi certi che risultino incontestabili davanti ad un giudice.

Il danno da lucro cessante

 

In caso di mancato allaccio della luce in un bar il danno che potrà essere richiesto al gestore elettrico potrà riguardare anche il mancato guadagno a causa dell’impossibilità di svolgere l’attività di ristorazione. Per richiedere questo tipo di danno si dovrà fare una stima del guadagno giornaliero e richiedere lo stesso a titolo di risarcimento.

Il danno all’immagine

 

In caso di mancanza di luce in un bar il danno che potrà essere richiesto al gestore elettrico potrà riguardare anche il danno all’immagine procurato all’attività che si è trovata costretta a posticipare il giorno di apertura, disdire eventuali prenotazioni o a mandare via clienti giunti sul posto. Il calcolo per questo tipo di danno, non è facile da dimostrare e sarà necessario verificare tutta una serie di fattori per ottenere il risarcimento dovuto.

La perdita di clientela

 

Il mancato allaccio della luce in un bar, comporta il rischio di perdere clienti non solo per quel determinato giorno ma anche per il futuro: i clienti infatti potrebbero andare in un altro pub e non recarsi più in quello che ha subito il distacco della luce. Ovviamente questo danno per essere risarcito ha bisogno di una attenta valutazione che non sempre risulta possibile.

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https://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.png 0 0 MrzOrgUserAdmin https://www.marzorati.org/wp-content/uploads/2020/02/logo-nuevo-high.png MrzOrgUserAdmin2018-02-23 17:37:522018-02-23 17:37:52Mancato allaccio luce al bar: come ottenere il risarcimento dei danni

Mancato allaccio luce in albergo: come ottenere il risarcimento del danno

L’albergo che si accorge del mancato allaccio della luce ha può chiedere il risarcimento del danno subito a causa del ritardo agendo contro il gestore. Un albergo senza luce, infatti, viene privato di un bene primario che è essenziale nello svolgimento della propria attività: una simile menomazione potrebbe comportare grosse perdite di clientela con le relative perdite di guadagno.

Un albergo, tra l’altro, sarebbe costretto a pagare il personale anche per le ore o i giorni in cui è rimasto privo di luce, subendo un ulteriore danno economico.

Risarcimento del danno patrimoniale: danno materiale

 

La prima tipologia di danno di cui l’albergo potrà chiedere il risarcimento è il danno materiale ossia il danno emergente che si può descrivere come le somme che sono state versate in relazione all’evento dannoso, ossia la carenza di luce.

A titolo esemplificativo potremmo citare:

  • la spesa sostenuta per il personale che non ha lavorato a regime, ma che comunque è stato pagato anche per i giorni in cui non c’era la luce;

  • il costo sostenuto per il reperimento di mezzi di illuminazione alternativi;

  • la spesa effettuata per la pubblicità per un evento particolare che si sarebbe dovuto svolgere, per i volantini o per il menù, se sarebbe stato diverso per quella serata.

In tutti i casi dovrà essere verificato se i costi possano essere risarciti in quanto dotati di opportuni giustificativi che possano fungere da prova della spesa davanti al giudice.

Risarcimento per il mancato guadagno

 

Nel caso in cui un albergo sia privato della luce potrà chiedere al gestore anche il ristoro del danno patrimoniale consistente nel mancato guadagno effettuato nel periodo.

Il mancato guadagno può verificarsi sia con la perdita di clientela, per esempio clienti che avevano prenotato ma verificando il disagio hanno lasciato l’alloggio senza usufruire dei servizi dell’hotel e, quindi, senza pagarli, oppure per l’attività di ristorazione o bar.

Il rischio di perdere clienti, tra l’altro, potrebbe riflettersi non solo per quel determinato giorno ma anche per il futuro: i clienti infatti potrebbero andare in un altro albergo e non recarsi più in quello che ha subito il distacco della luce.

Un albergo che resta senza luce potrebbe trovarsi impossibilitato anche a fornire i servizi aggiuntivi – come spa e welness – con il rischio che i clienti, anche solo di questi servizi, si rechino altrove.

Per ottenere il riconoscimento di questa perdita di lucro dovranno essere fornite opportune prove documentali o testimoniali al giudice che dovrà valutare e riscontrare l’effettivo andamento negativo.

Risarcimento per danno all’immagine

 

Negli esempi che abbiamo tratteggiato poc’anzi si comprende come possa essere problematico per un hotel affrontare le esigenze della clientela in caso di mancanza della luce.

In questi casi l’attività potrebbe subire anche un danno all’immagine per aver dovuto disdire eventuali prenotazioni o rimandare eventi o, ancora, per aver visto clienti andare via scontenti.

Il calcolo di questo tipo di danno, non è agevole né facile da provare e sarà necessario verificare tutta una serie di fattori per ottenere il risarcimento dovuto.

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