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Separazione e divorzio, novità nella riforma del processo civile

Le novità da tempo annunciate sulla separazione e sul divorzio sono diventate realtà con la riforma Cartabia, entrata definitivamente in vigore sia per il rito dei procedimenti di famiglia che, più in generale, per tutto il rito del processo Civile.

La riforma ha prima di tutto raccolto le richieste che da svariati anni provenivano dagli addetti ai lavori che gestiscono in prima persona le crisi familiari soprattutto ai fini della nascita di un unico Tribunale per la famiglia e i minori, il quale lavorerà sulla base di un unico rito uniformato, uguale per tutti i giudizi.

Mentre il nuovo rito dei procedimenti di separazione, divorzio e, più in generale, di tutte le cause relative a questioni familiari è già entrato in vigore, il Tribunale della Famiglia dovrebbe fare il suo ingresso definitivo entro la fine del prossimo anno.

Diritto di famiglia: quali novità sono introdotte dalla riforma

Nell’ambito del Diritto di famiglia le novità più importanti sono:

  • la nascita di un unico Tribunale per le persone, per i minori e per la famiglia che accorpa il Tribunale per i minorenni e prevede l’assegnazione di magistrati esperti nelle materie trattate;

  • più velocità per ottenere la separazione e il divorzio che si possono chiedere insieme, con un unico atto, con l’assistenza di un avvocato, preferibilmente un avvocato divorzista. Non c’è più bisogno di fare prima un ricorso per chiedere la separazione, e poi un secondo ricorso separato per domandare il divorzio: ora si possono chiedere contestualmente. Per avere direttamente il divorzio immediato basterà fare una domanda cumulativa.

    Non è stato introdotto il “divorzio senza separazione” quindi la separazione non viene cancellata, però sarà possibile ottenere il divorzio in un tempo più rapido.

  • il potenziamento della negoziazione assistita e della mediazione familiare (incentivi fiscali, trattazione da remoto e allargamento anche ai genitori non coniugati);

  • il miglioramento e l’abbreviazione delle forme di tutela per le donne ed i minori che subiscono violenza con l’obbligo di nomina di un curatore speciale a favore del minore di età (binario preferenziale per ordini di protezione in via d’urgenza, maggiore raccordo tra giudice penale e giudice civile.

Unico processo per la separazione e il divorzio

Per quanto riguarda i procedimenti di separazione e divorzio (ma anche di cause per la regolamentazione della responsabilità genitoriale in caso di coppia non sposata) uno degli scopi della riforma è quello di rendere il processo molto più veloce e snello. Il Legislatore ha pensato di evitare la doppia fase, presidenziale e istruttoria, affidando l’intera causa ad un unico giudice istruttore, delegato dal Collegio, che possa avere maggiore conoscenza della pratica e decidere più in fretta, soprattutto nell’interesse dei minori.

Per chiedere il divorzio contestualmente alla domanda di separazione è necessario che l’avvocato inserisca subito in un unico atto tutte le domande relative alla separazione personale ed al successivo divorzio, il quale potrà essere pronunciato e trattato dallo stesso Giudice.

Il divorzio si otterrà quando:

1) ci sarà stata la separazione: basta anche semplicemente la sentenza “parziale” di separazione che viene emessa già dopo la prima udienza, senza dover attendere la conclusione della causa

2) saranno trascorsi 6 o 12 mesi a seconda che la separazione sia stata pronunciata a seguito di un giudizio consensuale o giudiziale. Durante questo periodo ovviamente i coniugi non si devono essere riconciliati.

Una sola udienza dopo 90 giorni con tutte le prove e documenti

Chi introduce la causa riceve entro 3 giorni un decreto con il quale il Tribunale fissa la prima udienza alla quale le parti devono presenziare di persona con i loro Avvocati. L’udienza è fissata in tempi brevi, ossia entro 90 giorni dal deposito del ricorso. Nello stesso decreto il Tribunale nomina il Giudice istruttore delegato dal Collegio alla trattazione della causa.

Il giudice istruttore concede un termine per procedere alla notifica da parte del ricorrente del ricorso e del decreto di fissazione di udienza al coniuge convenuto. Entrambe le parti avranno poi la possibilità – prima dell’udienza – di depositare ulteriori atti per precisare le domande e le richieste di prove. Quindi prima della prima udienza le parti potranno depositare ulteriori documenti e prove, così da dare al Giudice istruttore un quadro completo.

All’udienza il Giudice:

1) deve assumere i provvedimenti provvisori ed urgenti (affidamento dei figli, collocazione dei figli minori, assegnazione della casa coniugale, tempi e modalità di permanenza dei figli presso l’altro genitore non collocatario, assegno mensile per i figli, eventuale assegno di mantenimento del coniuge ecc.) che saranno esecutivi durante lo svolgimento della causa e potranno essere modificabili, revocabili in qualsiasi momento o, in talune circostanze appellabili;

2) deve decidere sull’ammissione dell istanze istruttorie: quindi valuta le prove, e valuterà, ad esempio se ascoltare, o meno, i testimoni, se far fare ad uno psicologo di sua fiducia (Consulente Tecnico d’Ufficio c.d. CTU) una consulenza per comprendere quale sia il genitore più idoneo a stare con i figli o potrà decidere di nominare un Consulente per esaminare i redditi/guadagni dei coniugi o che si presume non siano stati dichiarati, potrà decidere se far fare una indagine fiscale alla Polizia tributaria (Guardia di Finanza) ecc..

Nella separazione e divorzio giudiziale i figli – per i provvedimenti che li riguardano – devono sempre ascoltati dal Giudice istruttore quando hanno compiuto 12 anni ma anche di età inferiore quando hanno capacità di discernimento. Il Giudice istruttore li ascolta direttamente (c.d. ascolto diretto), generalmente alla prima udienza, e può farsi assistere da un professionista terzo (psicologo, neuropsichiatra infantile, ecc.) ossia da un esperto o ausiliario (c.d. ascolto assistito). L’ascolto è superfluo in caso di giudizi consensuali mentre è escluso sia se il bambino rifiuta espressamente di farsi ascoltare sia nei casi di evidente nocumento per il minore.

Conseguenze sulla difesa legale in caso di procedimento unico per la separazione e il divorzio

La scelta di “unire” separazione e divorzio in un’unica causa comporta una modifica nella modalità di redazione degli atti oltre che una specifica modulazione della difesa da parte dei legali.

L’atto, infatti, deve contenere la doppia richiesta di separazione e divorzio ma anche una doppia linea difensiva sulle domande economiche (che, tra l’altro, hanno presupposti diversi nelle due fasi) oltre che sulle disposizioni relative ai figli: ciò comporterà una ancora maggiore attenzione sulla scelta dell’Avvocato che dovrà essere un Professionista esperto in materia di diritto di famiglia capace di muoversi al meglio nell’articolata formulazione del ricorso introduttivo fin da subito altrimenti si rischierà di avere le armi spuntate in una causa che chiede alle parti di mettere sul tavolo le carte fin dal primo momento.

Questo permetterà di avere un’unica istruttoria che, quindi, garantirà una gestione dell’intero processo in minor tempo rispetto alla precedente necessità di attendere due giudizi (con relativi eventuali appelli!) per la definizione della questione familiare.

Complessa sarà l’interconnessione delle sentenze: la pronuncia finale, infatti, prevede condizioni temporali specifiche sulla decorrenza del successivo divorzio rispetto alla separazione e delle relative condizioni. Anche i Giudici, quindi, devono prestare maggiore attenzione a questi raccordi.

Questa strada sembra aprire uno spiraglio verso quello che sarebbe un intervento epocale in materia: ossia il divorzio diretto, senza prima dover passare dalla separazione. Un rito così orientato potrebbe, infatti, aiutare a fare definitiva breccia verso l’apertura del Legislatore a tale prospettiva.

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Divorzio e unione civile: cosa succede al TFR dell’ex marito defunto unito civilmente?

Tra il divorzio, l’unione civile ed il TFR di uno dei partner defunto unito civilmente esiste un rapporto che prevede la suddivisione del trattamento di fine rapporto pro quota tra i superstiti.

Non è infrequente vedere storie di persone che dopo lunghe relazioni eterosessuali scoprono, o meglio, trovano il coraggio di vivere alla luce del sole la loro omosessualità ed iniziano una storia con una persona del loro stesso sesso.

Nel caso in cui ci fosse il desiderio di vivere un legame stabile la Legge Cirinnà permette anche ai divorziati di costituire un’unione civile.

Cosa succederebbe se il partner unito civilmente venisse a mancare?

Prendiamo come esempio una coppia di gay unitasi civilmente dopo che uno dei due ha ottenuto il divorzio dalla moglie alla quale versa anche un assegno di mantenimento. Purtroppo l’ex marito muore in un incidente stradale. A quel punto si aprono due diversi scenari perché il partner unito civilmente diventa erede legittimo del defunto ma l’ex coniuge, anche se non diventa erede, non viene del tutto estromessa dalle conseguenze economiche della scomparsa dell’uomo.

In particolare vogliamo porre attenzione su quello che accade al trattamento di fine rapporto che il defunto aveva maturato e che viene liquidato dal datore di lavoro alla famiglia del lavoratore.

Come accadrebbe se il marito fosse ancora in vita, l’ex moglie ha diritto a ricevere una quota del TFR anche dopo la morte dell’ex.

Chi ha diritto al TFR

La somma viene divisa tra la parte unita civilmente superstite, il coniuge divorziato e gli eventuali figli del lavoratore defunto o altri parenti a suo carico. Di fatto, però, il compagno superstite dovrà dividere la sua quota di TFR con l’ex moglie divorziata.

Attenzione, quindi, perché se l’ex coniuge si vedesse negare questo diritto potrebbe portare in Tribunale sia il partner superstite che la restante famiglia cosi da farsi liquidare dal Giudice la quota di propria spettanza.

Affinché la pretesa dell’ex coniuge venga accolta, però, è necessario che questa percepisse l’assegno di mantenimento mensile: in mancanza di tale condizione, infatti, non potrà ottenere nessuna somma.

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L’assegno di divorzio può sopravvivere alla sentenza di annullamento del matrimonio religioso

L’assegno di divorzio e la sentenza di annullamento del matrimonio religioso non hanno necessariamente un rapporto di interdipendenza. È bene che ci sia un chiarimento in merito dato che l’annullamento del matrimonio religioso è tornato recentemente in auge non solo trai VIP.

Se nelle cronache rosa, infatti, leggiamo spesso di coppie famose che decidono non solo di separarsi e divorziare, ma anche di chiedere al Tribunale ecclesiastico l’annullamento del proprio matrimonio religioso, in questi ultimi la tendenza sembra ampliarsi. Con probabilità l’aumento del ricorso a tale strumento è dovuto all’intervento di Papa Francesco che ha fortemente ridotto le tariffe per iniziare il Giudizio dinanzi alla Sacra Rota che, prima, era destinato soltanto a coniugi particolarmente abbienti.

Nonostante i cambiamenti apportati nel corso degli anni, però, spesso le tempistiche per l’annullamento sono più lunghe di quelle del divorzio, ed esistono delle regole di raccordo per far convivere i due procedimenti e le due sentenze.

La delibazione e l’efficacia delle sentenze ecclesiastiche per l’ordinamento italiano

Per poter essere efficaci per l’ordinamento italiano, le sentenze di un Tribunale straniero, e quindi anche del Tribunale ecclesiastico, devono essere delibate. La Corte di Appello deve cioè verificare che la sentenza ecclesiastica presenti tutti i requisiti per poter essere riconosciuta anche dall’ordinamento italiano.

Cosa succede all’assegno di divorzio dopo la delibazione della sentenza di annullamento?

Dobbiamo precisare che le due sentenze, così come gli effetti giuridici, possono convivere. In sostanza l’annullamento del matrimonio religioso non comporta la cancellazione delle condizioni previste dalla sentenza di divorzio. In linea di massima i rapporti patrimoniali che intercorrono fra gli ex coniugi dopo il divorzio, come ad esempio il diritto da parte del coniuge più debole a ricevere un assegno di mantenimento e gli altri accordi relativi agli aspetti economici, non possono essere modificati dalla delibazione della sentenza di annullamento, a patto che la sentenza di divorzio sia definitiva (ossia quando sono trascorsi i termini per fare appello o quando sono stati svolti tutti e tre i gradi di giudizio).

Solo se la sentenza di nullità modifica le condizioni economiche degli ex coniugi può essere introdotto un procedimento di modifica delle condizioni di divorzio.

La stessa regolamentazione è prevista in caso di separazione passata in giudicato i cui effetti economici, quindi, possono sopravvivere alla sentenza di nullità ecclesiastica.

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Separazione e divorzio quando il coniuge (marito moglie) è irreperibile

Il coniuge può ottenere la separazione o il divorzio anche se il marito, o la moglie, è irreperibile. Succede più spesso di quanto si possa immaginare, soprattutto quando i coniugi non hanno figli, e da anni non hanno più contatto tra loro, che uno dei due si rivolga all’avvocato specializzato in diritto di famiglia dicendo: “vorrei separarmi (o divorziarmi) ma non so più dove abita mia moglie (o mio marito), ho anche provato a chiedere un certificato di residenza al Comune ma risulta irreperibile, e ora come faccio?”. Può, infatti, succedere che il coniuge non sia più rintracciabile al Comune dell’ultima residenza conosciuta perché, ad esempio, ha lasciato la casa familiare senza comunicare il nuovo indirizzo oppure non è stato trovato durante l’ultimo censimento o, ancora, è un italiano che si è trasferito all’estero senza iscriversi all’AIRE (Anagrafe italiani residenti all’estero) e neppure ha comunicato alcunché al Consolato italiano o – ed è il caso più ricorrente – è un cittadino straniero che ha lasciato l’Italia senza più dare alcuna notizia di sé.

In questi casi di irreperibilità è, comunque, sempre possibile ottenere la separazione (o il divorzio). Sarà tuttavia necessario iniziare un procedimento contenzioso. La separazione e il divorzio possono essere più veloci: in Tribunale la separazione e il divorzio si possono chiedere insieme, con un unico atto, con l’assistenza di un avvocato, preferibilmente un avvocato divorzista. Non c’è più bisogno di fare prima un ricorso per chiedere la separazione, e poi un secondo ricorso separato per domandare il divorzio: per avere direttamente il divorzio immediato basterà fare una domanda cumulativa.

La separazione non viene cancellata, ci sarà sempre: non si tratta quindi di un “divorzio senza separazione”, ma ora i tempi per ottenere prima la separazione e poi il divorzio breve si sono velocizzati. L’avvocato quindi depositerà per il proprio cliente un ricorso in Tribunale ed entro 3 giorni il Tribunale fisserà – con decreto – la prima udienza. L’udienza è fissata in tempi brevi, ossia entro 90 giorni dal deposito del ricorso.

Il ricorso ed il provvedimento di fissazione dell’udienza, dovranno essere notificati, secondo una specifica procedura, all’altro coniuge.

Non è invece possibile iniziare una separazione (o un divorzio) consensuale per il semplice fatto che all’altro coniuge non si potrebbe far sottoscrivere il ricorso di separazione (o di divorzio) in quanto è, appunto, irrintracciabile. Tuttavia, se – a seguito della notifica – anche l’altro coniuge dovesse comparire dinanzi al Tribunale, sarà possibile trasformare il procedimento da contenzioso a consensuale, a patto – ovviamente – che i coniugi trovino un accordo sulle condizioni.

Quando il coniuge è irreperibile bisognerà quindi chiedere l’assistenza di un avvocato perché deve provvedere ad effettuare la notifica dell’atto giudiziario con un’apposita procedura prevista dal Codice di Procedura Civile, solitamente presso l’ultima residenza nota, ma potrebbero essere necessari anche altri ulteriori accorgimenti.

All’udienza, qualora il Giudice dovesse ritenere che la notifica si sia perfezionala, e che quindi si sia instaurato il contraddittorio, dichiarerà la contumacia dell’altro coniuge. In sostanza, anche se l’atto giudiziario non sia stato effettivamente ricevuto, o ritirato, dal destinatario (quindi dall’altro coniuge), il Giudice riterrà la notifica come se fosse avvenuta e, quindi, riterrà l’atto come se fosse stato ricevuto. Tutto questo a condizione però che siano state rispettate, nella notifica, alcune regole di procedura civile a garanzia e a tutela del destinatario. Il Giudice a questo punto dichiarerà l’altro coniuge contumace, ossia lo considererà come se fosse presente in causa, e continuerà il processo civile fino ad arrivare alla sentenza.

L’assenza dell’altro coniuge – il quale tendenzialmente avrebbe potuto sia opporsi alle domande e sia proporne altre – rende generalmente la causa un po’ più veloce, potendosi così arrivare alla sentenza di separazione (o di divorzio) in tempi assai rapidi.

Per ottenere il divorzio sarà sufficiente che:

1) ci sia stata la separazione: basta anche semplicemente la sentenza “parziale” di separazione che viene emessa già dopo la prima udienza, senza dover attendere la conclusione della causa

2) siano trascorsi 6 o 12 mesi a seconda che la separazione sia stata pronunciata a seguito di un giudizio consensuale o giudiziale.

La causa di separazione o divorzio giudiziale si introduce sempre con un ricorso ma si arriva dal Giudice alla prima udienza già con tutto in modo che sia più facile (e veloce) decidere. Quindi l’avvocato dovrà subito inserire negli atti, in maniera dettagliata e completa, tutti i fatti più rilevanti e, soprattutto, tutti i mezzi di prova (documenti, ricevute, foto, testimoni ecc.). Considerando che il procedimento si svolgerà in contumacia e, quindi, l’attività istruttoria sarà più breve, sarà possibile ottenere il divorzio più velocemente.

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Come divorziare se non so dove si trova lui: divorzio con coniuge irreperibile

Quando la moglie vuole divorziare ma non sa dove sia il marito, deve procedere con un procedimento di divorzio con coniuge irreperibile.

Capita spesso, infatti, che si perdano le tracce di una persona oppure che l’ex sia uno straniero che lascia il nostro paese senza dare alcuna notizia di sé: in questi casi la moglie può comunque divorziare.

In questi casi, infatti, non è possibile procedere con un divorzio su domanda congiunta perché il coniuge non può accettare alcun accordo essendo irrintracciabile. Laddove il coniuge dovesse comparire dinanzi al Tribunale a causa iniziata, però, si potrà consensualizzare il procedimento, se si riuscirà a trovare un accordo sulle condizioni.

Assistenza legale e durata del procedimento

Premesso che per ottenere lo scioglimento del matrimonio dinanzi al Tribunale è sempre necessario l’intervento di un Avvocato, sia in caso di procedura consensuale che giudiziale, quando il coniuge è irreperibile la parte più delicata del procedimento consiste nella notifica degli atti alla controparte per la quale il legale deve effettuare un’apposita procedura prevista dal Codice di Procedura Civile, solitamente presso l’ultima residenza nota.

Dopo aver effettuato le notifiche nei modi previsti dal Codice la causa potrà continuare con la pronuncia di contumacia del coniuge da parte del Giudice. In sostanza il procedimento giudiziale prosegue in assenza della controparte. In questi casi l’assenza del coniuge impedisce l’instaurazione di un contraddittorio tra le parti e, quindi, rende il procedimento un po’ più veloce anche se la causa deve svolgersi secondo il rito previsto dal Codice e, pertanto, può avere una durata variabile a seconda del numero di processi celebrati in ciascun Tribunale.

Come detto quando il coniuge è irreperibile la parte più delicata del procedimento è quella della notifica. Per questo è necessario rivolgersi ad un legale in grado di effettuare le necessarie ricerche presso le case comunali ma, soprattutto, che conosca bene la disciplina delle varie tipologie di notifiche in special modo nel caso in cui queste si debbano effettuare all’estero dato che, a seconda del paese di destinazione, ci si deve muovere compiendo passaggi differenti, anche presso uffici consolari ed ambasciate.

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Divorzio e mantenimento: quando l’assegno può essere negato al coniuge economicamente autosufficiente o indipendente

Ci sono voluti quasi 30 anni per giungere ad una riforma epocale per quanto riguarda il diritto al mantenimento del coniuge “debole” in sede di divorzio. Il vecchio orientamento, che prevedeva la quantificazione dell’assegno di mantenimento in base al tenore di vita durante il matrimonio, è infatti cambiato con la sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017 che ha stabilito che l’assegno di mantenimento, che comunque deve conservare uno spirito assistenziale, debba essere calcolato sulla base della capacità economica di chi lo richiede con, tuttavia, dei criteri ancora più rigorosi rispetto a quanto avveniva in passato.

In altri termini secondo questa pronuncia i Giudici dovevano valutare se la ex moglie o l’ex marito, richiedenti l’assegno di mantenimento, risultassero economicamente autosufficiente (perché, ad esempio, lavorano o hanno un conto in banca che garantisce una rendita finanziaria o ricevono un affitto da immobili locati ecc.) o, tratto ancora più interessante, se potessero essere autosufficienti (perché, ad esempio, si trova in età lavorativa, e potrebbe quindi cercarsi un impiego o lavorare come libero professionista).

Negli ultimi anni si era parlato di una modifica alle regole per la determinazione dell’assegno di mantenimento per l’ex coniuge: le decisioni che negano l’assegno di mantenimento all’ex moglie che va a convivere stabilmente con il nuovo compagno vanno proprio nella direzione di ritenere il matrimonio non più, come alcune volte si sentiva dire, una assicurazione economica sulla vita.

Nel momento in cui l’ex coniuge richiede l’assegno di mantenimento il Giudice deve operare almeno due valutazioni: una sulla situazione economica del richiedente al fine di verificare se ci siano, o meno, i presupposti per ottenere l’assegno e l’altra sulla sua quantificazione.

Secondo l’impostazione dettata nel 2017 dalla Corte di Cassazione in primo luogo la valutazione doveva essere orientata a capire se l’ex coniuge avesse diritto all’assegno di mantenimento, partendo dai criteri di indipendenza e autosufficienza, nel senso che il Giudice valutati i redditi, i beni mobili e immobili di proprietà del richiedente, la disponibilità della casa familiare e la formazione scolastica e professionale, doveva stabilire se esistesse, oppure no, il diritto all’assegno. In questa valutazione il Giudice doveva anche verificare l’eventuale esistenza, per la persona richiedente, di mezzi idonei per rendersi economicamente autonoma o per procurarsi un reddito, valutando in questo anche la capacità lavorativa del soggetto.

Solo nel caso non ci fossero stati i mezzi idonei per rendersi indipendente o per procurarsi un reddito si poteva passare alla quantificazione dell’assegno. Non rilevava più, quindi, la situazione di disoccupazione del richiedente al fine di ottenere il mantenimento nel caso in cui lo stesso non avesse dimostrato di essersi adoperato per trovare un’occupazione.

Anche i termini per il calcolo e la quantificazione dell’assegno di divorzio erano cambiati: il Giudice non doveva più cercare di livellare la differenza economica tra i due coniugi e riportare il coniuge richiedente al tenore di vita che aveva durante il matrimonio, ma doveva quantificare un contributo che permetta allo stesso di mantenersi.

Per la quantificazione quindi non si doveva più considerare come parametro principale la situazione economica del richiedente durante il matrimonio, ossia quello che si chiamava tenore di vita goduto durante il matrimonio, ma si dovevano considerare criteri più restrittivi: ad esempio, il Tribunale doveva valutare se una somma risultasse adeguata al coniuge per mantenersi oggi, più che per mantenere uno status storico ossia una situazione ormai non più attuale. La Corte di Cassazione sembrava quindi dire che gli ex coniugi dovevano rivolgere lo sguardo più all’oggi che al passato.

Con questa impostazione alcune situazioni risultavano molto difficili da valutare: si pensi al caso di una donna con figli piccoli che tecnicamente avrebbe la capacità lavorativa ma che, dovendo seguire i propri figli, è impossibilitata a svolgere un’occupazione che le permetterebbe il proprio mantenimento, o ancora al fatto che lavorando dovrebbe sobbarcarsi ulteriori costi per pagare baby sitter o persone che possano seguire i figli mentre si trova al lavoro. Allo stesso tempo doveva definirsi quale fosse la valutazione in merito a quelle donne che, concordemente con il marito (ora ex), avevano deciso di fare le casalinghe e che quindi si ritrovavano in una situazione di difficile collocamento lavorativo pur essendo soggetti con potenziale capacità lavorativa.

Per questi motivi le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza del 11 luglio 2018, n. 18287 hanno introdotto nuovamente il criterio del tenore di vita e del contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento per la determinazione del quale deve essere fatta una valutazione più armonica e comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali.

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Assegno di divorzio per il coniuge economicamente indipendente o autosufficiente | Ritorna la valutazione del tenore di vita goduto dalla moglie durante il matrimonio

La sentenza n. 11504/17 della Cassazione aveva cambiato la rotta del divorzio in Italia perché aveva negato l’assegno di mantenimento per il coniuge economicamente autosufficiente o indipendente. In particolare aveva eliminato la valutazione del tenore di vita goduto dalla moglie durante il matrimonio.

A seguito della pronuncia della Suprema Corte, infatti, il parametro sul quale i Giudici dovevano basare le proprie valutazioni in merito all’assegno di mantenimento per il c.d. “coniuge economicamente debolenon poteva più essere il tenore di vita avuto durante il matrimonio bensì la situazione in cui si trovava effettivamente il richiedente al momento della domanda di divorzio.

La pronuncia è scaturita dal ricorso presentato dall’imprenditrice Lisa Lowenstein nei confronti dell’ex marito, ed ex ministro dell’Economia Vittorio Grilli, contro la sentenza della Corte d’Appello di Milano che le aveva negato l’assegno di mantenimento divorzile.

Anche la Cassazione aveva negato l’assegno di divorzio all’ex moglie facendo tuttavia una diversa valutazione e introducendo innovativi criteri che, per molti, apparivano del tutto in linea con l’evolversi dei tempi, andando quindi a cambiare, in parte, la concezione del matrimonio.

Criterio applicato dalla Corte di Cassazione

Secondo la Cassazione infatti era necessario “superare la concezione patrimonialistica del matrimonio inteso come sistemazione definitiva” in quanto “è ormai generalmente condiviso nel costume sociale il significato del matrimonio come atto di libertà e di autoresponsabilità, nonché come luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile. Si deve dunque ritenere che non sia configurabile un interesse giuridicamente rilevante o protetto dell’ex coniuge a conservare il tenore di vita matrimoniale”.

A cambiare, quindi, era stato proprio il punto di vista su cui doveva incentrarsi la valutazione del Giudice in Sede di divorzio: come criterio principale non contava più, dunque, lo stile di vita goduto dai coniugi durante il matrimonio ma la valutazione dell’autosufficienza o dell’indipendenza economica dell’ex coniuge che chiede l’assegno. Ad esempio, se in Sede di divorzio la moglie avesse domandato al Tribunale di condannare il marito al pagamento di un assegno mensile di mantenimento, bisognava che il Giudice prima accertasse che la moglie non fosse in possesso di redditi idonei, o di un patrimonio mobiliare e immobiliare che le garantisse una rendita o che avesse “la stabile disponibilità” di un’abitazione. Allo stesso modo, nel caso in cui la moglie richiedente fosse stata senza lavoro, il Giudice avrebbe dovuto anche accertare se avesse le “capacità e possibilità effettive di farlo e se quindi, si stesse eventualmente sottraendo dal cercarsi una occupazione, senza alcun giustificato motivo. Ne conseguiva in merito all’assegno divorzile “se è accertato che il richiedente è economicamente indipendente o effettivamente in grado di esserlo, non deve essergli riconosciuto tale diritto”.

Conseguenze della decisione sui divorzi già pronunciati

Una svolta epocale dunque, capace di abbattere un principio che aveva retto granitico per oltre trent’anni e che vedeva come un dogma intoccabile il diritto del coniuge economicamente più debole a mantenere lo stesso tenore di vita avuto durante il matrimonio e che, bisogna ammettere, ha regalato una certa sicurezza a tutti quei divorziandi che hanno sempre e solo contato sulle risorse economiche dell’altro coniuge.

Questi nuovi criteri di calcolo valevano non solo per chi doveva divorziarsi, o per chi aveva in corso un divorzio, ma anche per chi il divorzio – consensuale o giudiziale – lo aveva già affrontato. Per questo motivo anche chi stava  pagando un assegno di mantenimento all’ex moglie, poteva – in caso vi fossero i presupposti – presentare un ricorso di modifica delle condizioni di divorzio, chiedendo al Tribunale di poter ridurre l’importo versato o, in certi casi, di eliminarlo completamente.

Nuova pronuncia della Corte a Sezioni Unite

Le Sezioni Unite della Corte, in ogni caso, con la sentenza del 11 luglio 2018, n. 18287 hanno introdotto nuovamente il criterio del tenore di vita e del contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento per la determinazione del quale deve essere fatta una valutazione più armonica e comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali.

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Divorzio e criteri per calcolare l’assegno di mantenimento per il coniuge: caso della moglie senza reddito

La Cassazione ha parzialmente modificato i criteri per determinare l’assegno mantenimento in caso di divorzio nei confronti della moglie che non ha reddito ampliando la valutazione rispetto al semplice tenore di vita avuto dal coniuge durante il matrimonio e precisando che debba essere considerato anche il contributo fornito alla conduzione della vita familiare in una concezione “composita” dell’assegno di mantenimento per la determinazione del quale deve essere fatta una valutazione più armonica e comparativa delle rispettive condizioni economico-patrimoniali di moglie e marito.

Questa novità, in pratica, apre la strada ad una differente valutazione delle situazioni patrimoniali e lavorative dei coniugi che potrebbe portare anche alla revisione di molte pronunce di divorzio – consensuali o giudiziali – già emesse sulla base del criterio del tenore di vita.

Cosa cambia per il coniuge che chiede l’assegno di divorzio?

Andiamo ad esaminare una situazione concreta per capire cosa cambia per chi chiede l’assegno di divorzio.

Immaginiamo una moglie separata, di mezza età, laureata ma casalinga – dato che, durante il matrimonio, i coniugi avevano concordemente deciso che lei si sarebbe occupata dei figli. Attualmente in fase di separazione ha ottenuto un assegno di mantenimento versato dal marito, dirigente d’azienda. Durante l’unione la coppia, anche se non si è mai lasciata andare a lussi sfrenati, ha goduto di un buon tenore di vita: è riuscita anche ad investire i risparmi accantonati, acquistando alcune case poi divise al 50% in fase di separazione.

In sede di divorzio si dovrà valutare se il coniuge richiedente sia economicamente autosufficiente o abbia le capacità effettive per esserlo grazie, per esempio, a proprietà immobiliari, ad un patrimonio personale e la parte richiedente dovrà inoltre dimostrare di essersi resa parte attiva per ottenere i mezzi necessari per vivere ma il tenore di vita goduto con il marito, la contribuzione alla vita familiare e le possibilità economiche dell’epoca matrimoniale saranno considerate rilevanti per determinare la conferma o meno dell’assegno.

Come agire per dimostrare in ogni caso l’impossibilità di avere reddito

Potrà essere utile, ad esempio, iscriversi a corsi di formazione che possano riqualificare il curriculum vitae di una persona fuori dal mercato del lavoro, oppure inserire il proprio profilo nelle banche dati online che svolgono selezione del personale per conto di aziende terze, così come ricorrere al “collocamento” ordinario e parimenti potrà essere utile inviare vari curricula alle diverse aziende in cerca di personale. Un atteggiamento passivo e di “attesa” da parte della richiedente potrebbe essere visto negativamente dai Giudici e portare ad un rigetto della domanda. Nel caso che abbiamo tratteggiato per esempio, l’ex moglie potrebbe essere considerata in grado di mantenersi grazie ai risparmi accantonati durante il matrimonio o magari grazie alla proprietà degli immobili da far affittare e, quindi, potrebbe vedersi negare l’assegno.

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Separazione e divorzio: prevalenza dell’affidamento condiviso dei figli | Conflittualità mamma e papà

Dopo la separazione o il divorzio dei genitori il Tribunale tende a pronunciare con prevalenza l’affidamento condiviso dei figli anche se mamme e papà vivono un rapporto di forte conflittualità.

Quando il Tribunale deve decidere sulla sorte dei figli minorenni nel momento in cui la loro famigli a si disgrega, infatti, è tenuto a prendere provvedimenti che devono soddisfare un requisito fondamentale: preservare il loro interesse e il loro diritto alla bigenitorialità. Il giudice deve cioè assicurare ai figli la possibilità di crescere in un ambiente sereno, conservando rapporti significativi con entrambi i genitori anche dopo che il loro matrimonio o la loro unione sono terminati. È per questa ragione che la normativa pone in una posizione di privilegio l’affidamento condiviso.

Differenza tra affidamento e collocazione

 

Nel linguaggio comune, i concetti di “affidamento” e “collocazione” vengono confusi e spesso utilizzati impropriamente. In realtà tra i due termini vi è una sostanziale differenza.

Affidamento significa individuare il genitore che debba esercitare la responsabilità sui figli, prendendo sia le decisioni quotidiane che quelle di primario interesse per loro, con un coinvolgimento esclusivo del genitore nella vita del bambino ed un obbligo di educazione del figlio seguendo la sua crescita psicofisica.

Viceversa, la collocazione identifica unicamente il genitore con cui il figlio vive prevalentemente.

Negli ultimi anni i Giudici si esprimo con una prevalenza netta in favore di un affidamento condiviso dei figli con la collocazione presso uno dei due genitori, che, statisticamente, è più spesso la madre. Ciò significa che i figli continuano solitamente a vivere nella casa familiare con il genitore collocatario e che l’altro avrà il diritto e il dovere di collaborare alla loro educazione, dividendo con l’ex le responsabilità e gli obblighi della loro formazione, contribuendo al mantenimento ma anche alle scelte inerenti alla loro vite.

Le condizioni per l’affidamento condiviso

L’affidamento condiviso si caratterizza, quindi, non per l’esatta suddivisione dei tempi che il minore trascorre con l’uno o con l’altro genitore, ma per la condivisione delle scelte educative e formative e per la pari partecipazione comune alla vita del figlio. Lo scopo infatti è responsabilizzare i genitori nella tutela dei minori coinvolti.

Solo se l’affidamento a uno dei due genitori può danneggiare in modo concreto ed effettivo il figlio, l’opzione che verrà perseguita sarà quella dell’affido esclusivo all’altro genitore.

Si tratta però di casi estremi. Per fare solo alcuni esempi dovrebbe verificarsi una grave conflittualità tra minore e genitore o una situazione di maltrattamento del bambino o tossicodipendenza del papà o della mamma. La semplice conflittualità tra coniugi, invece, non costituisce motivo sufficiente per impedire l’affidamento condiviso. D’altronde, due persone possono decidere in qualsiasi momento di porre fine alla loro unione e ricominciare da zero, ma due genitori non dovrebbero mai sottrarsi ai loro doveri nei confronti dei figli.

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Sono valide le modifiche per migliorare gli accordi di separazione e divorzio decise da marito e moglie senza andare in Tribunale

Talvolta marito e moglie possono decidere modifiche agli accordi di separazione o divorzio che permettano di migliorare la condizione di entrambi. Queste modifiche sono valide anche senza ottenere l’assenso del Tribunale.

Gli accordi extra-separazione o divorzio

Andiamo con ordine e facciamo un esempio concreto tenendo presente che quanto diremo in relazione alle condizioni di separazione vale anche per le condizioni di divorzio. Marito e moglie decidono di separarsi. Insieme sono riusciti a regolare i rapporti economici e a definire le modalità di affido e collocazione dei figli minori ed il loro accordo è stato omologato dal Tribunale.

Dopo un paio d’anni dalla separazione il padre cambia lavoro. Potrà guadagnare di più, ma anche avere più tempo a propria disposizione. Decide quindi, di sua spontanea volontà, di aumentare il mantenimento mensile che paga alla moglie, per fornire un aiuto in più nella gestione delle spese quotidiane.

Inoltre, in accordo con lei, aumenta il numero di giorni di visita ai figli, che ora si fermano a dormire nella sua nuova casa anche un paio di sere infrasettimanali.

La moglie accetta di buon grado le novità, ma dopo qualche mese inizia a preoccuparsi per le possibili conseguenze che potrebbero derivare per una modifica degli accordi non approvata dal Tribunale. Teme, in particolare, che lo spontaneo aumento dell’assegno da parte del marito possa danneggiarla se fosse costretta a rimborsargli il denaro eccedente percepito.

Validità degli accordi tra le parti

Dobbiamo chiarire che, ormai nella prassi, è ammesso il valore delle modifiche pattuite dai coniugi successivamente all’omologazione della separazione. L’unica condizione posta è che si tratti di modifiche migliorative non lesive dei diritti e i doveri delle parti in causa e dei figli.

La possibilità d’intervenire sugli accordi è ammessa non solo per ciò che riguarda gli aspetti economici, ma anche la gestione dei figli. In tal caso, naturalmente, ogni eventuale modifica è riconoscibile a patto che non venga sacrificato l’interesse dei minori. Ad esempio, non sarebbe possibile un’intesa che vieti ai figli di vedere il padre a fronte di un aumento della quota di mantenimento a loro destinata.

La “nuova” regolamentazione, non essendo stata ratificata dal Tribunale, vale solo informalmente. Questo significa che la moglie non dovrà restituire quanto recepito in più. Dall’altro lato se il marito dovesse venir meno ai nuovi accordi non formalizzati, la moglie potrà agire direttamente per il recupero.

In cado di inadempimento di una delle parti, infatti, fa fede solo quanto indicato nel verbale o nella sentenza di separazione. La moglie dovrebbe agire per chiedere la modifica delle condizioni secondo i nuovi accordi intervenuti di fatto, così da farli riconoscere ufficialmente e poterli far eseguire anche forzatamente.

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Religioni diverse dei genitori non condizionano l’affidamento del figlio | Separazione e divorzio

Due genitori possono professare religioni diverse: questo normalmente non influenza la decisione sull’affidamento del figlio nell’ambito del giudizio di separazione o divorzio. È indubbio, però, che esistono alcune scelte nella vita di una persona che possono incidere in maniera significativa sulla sua esistenza e, a volte, su quella delle persone che la circondano, come i familiari. La decisione di abbracciare una nuova fede potrebbe essere uno di questi casi.

Pensiamo ad una coppia in procinto di separarsi in cui la moglie si è appena convertita ad una nuova professione religiosa. Questa confessione prevede, per i fedeli più osservanti, il rifiuto di sottoporsi a trasfusioni di sangue o a trapianti di organi, col rischio di poter mettere in pericolo, in caso di gravi emergenze, la loro stessa vita.

Il marito ha delle forti perplessità in merito al nuovo credo della moglie che ha apportato un radicale cambiamento nelle sue abitudini e frequentazioni e teme che questa rivoluzione nella vita personale della donna possa influenzare anche la vita dei loro bambini. Per questo preferirebbe che potessero restare a vivere con lui.

La religione è una scelta libera difesa dalla Costituzione

 

La fede religiosa è espressione dell’individualità di ciascuno, rappresenta una libera scelta e, in quanto tale, è difesa dalla Costituzione Italiana. Convertirsi a una nuova fede rappresenta una decisione legittima alla quale nessuno può opporsi.

Per questa ragione, in sede di separazione o divorzio, la religione non può essere di per sé fattore discriminante sulla base del quale il Giudice può decidere o meno a chi affidare o collocare i minori. Perché questo avvenga, è necessario che sia dimostrato che le pratiche religiose messe in atto dal genitore possano arrecare danni psicologici, fisici o formativi al minore.

 

Le possibilità del marito di ottenere la collocazione dei figli dipendono dal fatto che riesca a dimostrare, durante la causa, che la conversione della moglie costituisce concretamente un fattore di rischio per i bambini. Oppure che, in virtù della nuova fede della mamma, i minori siano costretti a cambiare radicalmente il loro stile di vita, le abitudini e i rapporti sociali, provocando loro smarrimento, turbamenti e difficoltà relazionali.

La sola conversione della madre e l’eventuale difficoltà di conciliare le convinzioni ideologiche tra marito e moglie non basterà per ottenere la collocazione dei figli.

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Negoziazione assistita: rivoluzione in tema di separazione e divorzio se c’è accordo tra i coniugi

Una rivoluzione epocale: l’introduzione della negoziazione assistita permette ai coniugi che sono d’accordo di ottenere la separazione e il divorzio fuori dalle aule dei Tribunali.

La coppia che decide di separarsi o divorziare in maniera consensuale oggi ha a disposizione due nuove opzioni alternative a quella giudiziale: la negoziazione assistita con l’intervento degli avvocati o la dichiarazione davanti a un Ufficiale di Stato Civile, come ad esempio il Sindaco.

Entrambe le procedure evitano alla coppia di doversi recare in Tribunale e permettono di ridurre i tempi rispetto all’iter giudiziario.

La negoziazione assistita

 

La negoziazione assistita consiste in un accordo sottoscritto dai coniugi (la cosiddetta convenzione di negoziazione) tramite il quale la coppia che vuole separarsi o divorziare, assistita dai rispettivi avvocati, si può accordare sia sulle questioni patrimoniali (come ad esempio l’utilizzo della casa familiare o l’assegno di mantenimento) sia su quelle relative all’affidamento dei figli.

Una volta predisposta la convenzione, gli avvocati devono autenticare le firme, depositare il documento presso la Procura della Repubblica e attendere il nulla osta (o l’autorizzazione) del Procuratore.

La dichiarazione all’ufficiale di stato civile

 

In alternativa i coniugi possono decidere di dichiarare la volontà di separarsi o divorziare in presenza dell’Ufficiale di Stato civile del comune di residenza di uno dei due o del comune in cui è iscritto l’atto di matrimonio.

Questa seconda opzione può essere intrapresa anche senza ricorrere all’assistenza di un avvocato. Ci sono però due limitazioni da prendere in considerazione: la dichiarazione può essere scelta soltanto dalle coppie che non hanno figli minori, non autosufficienti o portatori di handicap e non prevede la possibilità di inserire nell’accordo disposizioni patrimoniali, come ad esempio l’assegno di mantenimento in unica soluzione o il trasferimento di beni immobili.

È permessa, invece, la pattuizione relativa all’assegno di mantenimento mensile in favore del coniuge.

Le nuove disposizioni sono entrate in vigore l’11 novembre 2014, da allora, però, sono iniziati alcuni problemi gestionali: da un lato le procure non erano pronte a gestire gli elevanti volumi di negoziazioni che sono state presentate e, dall’altro, anche i Comuni hanno avuto la difficoltà nell’attrezzare gli uffici preposti a raccogliere le dichiarazioni dei separandi e divorziandi. Si sono creati, quindi, ritardi e attese nelle evasioni delle procedure quasi più lunghi di quelli previsti per la fissazione delle udienze in Tribunale.

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